Perchè
la giustizia spiazza la sinistra
da Il Corriere della sera del 24.7.98
PAOLO FRANCHI
«A tutti coloro che si dicono liberali e garantisti»: la
sfida lanciata da Pietro Folena sul Corriere è alta e impegnativa.
Ed è significativo che, nel lanciarla, il responsabile per la giustizia
dei Democratici di sinistra parli il linguaggio civile di chi è
convinto che l’effettivo tasso di liberalismo e garantismo di ciascuno
non sia verificabile a priori da una Santa Inquisizione
o da una commissione centrale di controllo o dal direttore di Repubblica,
ma solo in un confronto serrato di idee e di proposte. In un confronto
al quale non si partecipi per smascherare l’interlocutore, in una sorta
di riedizione tragicomica del peggior stalinismo; ma, tutto al contrario,
per cercare insieme le risposte democratiche più adeguate a un rischio
che
peraltro non è solo italiano. Quello del pan-penalismo o, se
si preferisce, della Repubblica penale. Sui grandi temi messi in
agenda dagli Stati Generali sulla giustizia dei Ds, e rilanciati da Folena
sul Corriere, è davvero difficile, «per chiunque si dica liberale
e garantista», non convenire. E’ davvero il tempo di un «ripensamento
del diritto», dell’«espansione di un diritto non penale, flessibile,
e della delineazione di un diritto penale ristretto»; di nuove regole
condivise per lasciarci alle spalle la corruzione eretta a sistema;
di un nuovo diritto societario e di un nuovo diritto penale dell’economia.
Prima ancora, è davvero il tempo di sforzarsi di rintracciare il
filo di un discorso comune tra culture ben differenti, sì, ma tutte
comunque nutrite dalla convinzione che la politica debba ritrovare su questo
terreno decisivo le proprie ragioni più profonde e più nobili.
La sfida, dunque, va, oltre che apprezzata, raccolta. Senza dimenticare
però che è lo stesso Folena a riconoscere che deve essere
anche la sinistra, questa sinistra, a dimostrare, anzitutto a se stessa,
di essere in grado d’affrontare un simile cimento. Perché non c’è
dubbio che una sinistra «liberale e libertaria» non ha nulla
da spartire con il pan-penalismo o con «una visione criminalizzatrice
di molti comportamenti sociali» che traduca l’esigenza di legge e
ordine «in una militarizzazione del bisogno di sicurezza e di coesione
sociale».
C’è qualche dubbio, invece, sul fatto che la sinistra italiana,
così come oggi si configura, lo sia davvero «liberale e libertaria»,
nella sua cultura, nei suoi comportamenti effettuali, persino nei suoi
tic. E se non lo è, o non lo è ancora, o non lo è
ancora pienamente, per autoassolversi, e ancor più per parlare a
chi tuttora non la riconosce affatto per tale, non le basterà invocare
le colpe, le responsabilità, gli errori, e neppure le nefandezze
dei suoi avversari, che pure, in tutto o in parte, ci sono. Non foss’altro
perché ogni interlocutore onesto sarà disposto, dispostissimo,
a convenire sulla denuncia della corruttela diffusa tra i gruppi dirigenti
della Prima Repubblica, sulla gravità del conflitto d’interessi
che il Cavaliere si trascina appresso, sull’inammissibilità delle
grida berlusconiane contro il complotto bolscevico-giudiziario, anzi, contro
un golpe in suo danno; e ancora, sull’improponibilità di un’amnistia
o di «regali» a chi ha rubato o peggio corrotto i giudici;
e forse (forse) potrà persino accettare la tesi, invero un po’ forte,
secondo cui le Procure si sarebbero mosse nei confronti del Pci-Pds con
la stessa meticolosa e inflessibile attenzione riservata agli altri. Ma
continuerà a chiedersi, l’interlocutore
onesto, quali fattezze dovrebbe mai avere, chi intendesse competere
ad armi pari con la sinistra per il governo del Paese, per essere considerato
dalla sinistra medesima finalmente degno di assolvere un simile compito.
Pietro Folena, e come lui Massimo D’Alema (che non a caso insiste sulla
necessità di tenere aperto almeno un pertugio per continuare a dialogare
con un’opposizione che rappresenta sedici milioni di elettori), conosce
meglio di noi la natura e l’esistenza del problema. Non è del tutto
esatto, probabilmente, individuarne le cause, come fa Folena, nell’eredità
di un
cinquantennio di opposizione: il Pci di Palmiro Togliatti, di Luigi
Longo, del primo Enrico Berlinguer, quello dell’unità nazionale,
non foss’altro perché si considerava «il partito della rivoluzione
italiana», a una «visione salvifica o persino rivoluzionaria
della magistratura non ha pensato mai.
Forse non è neppure del tutto esatto individuare solo o soprattutto
nello scarso coraggio politico la causa principale della difficoltà
che D’Alema incontra ogni qual volta è chiamato a resistere alla
violenta pressione esercitata sulla sinistra da intellettuali e organi
di informazione che si sono autoassegnati il ruolo di guardiani della virtù:
se questa pressione sortisce
pressoché sempre gli effetti sperati è anche perché
questa sinistra, dopo aver reciso, e senza elaborare il lutto, i legami
con quanto restava delle sue tradizioni, non ha sin qui saputo (e forse
neanche voluto) mettere mano alla costruzione di una nuova e autonoma identità
politica e culturale.
La guerriglia tra sostenitori del primato del partito e fautori del
primato dell’Ulivo riguarda soltanto i diretti interessati. Un grande confronto
nella sinistra e fra la sinistra e il Paese (quello che sin qui un po’
tutti hanno cercato di evitare) riguarderebbe gli italiani. Compresi quelli
che per la sinistra non hanno mai votato, e magari non voteranno mai.
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