Insanabile in Cassazione la carcerazione decaduta 

da Il Sole 24 ore del 24.3.99

ROMA — La tassatività dei termini previsti dal Codice di procedura penale in materia di libertà personale produce effetti così insanabili che la Cassazione non può mai evitare di prenderne atto, dichiarando in ogni caso l’inefficacia della custodia cautelare in carcere. Anche quando il ritardo non sia stato già denunciato davanti al giudice del riesame; e perfino quando il difensore non l’abbia rilevato neppure davanti alla stessa Cassazione, che deve farlo d’ufficio (ovvero estendere l’inefficacia anche agli eventuali coimputati che non abbiano impugnato il mancato rispetto del termine perentorio).
Così le Sezioni unite della Cassazione hanno motivato la già famosa sentenza con la quale, il 15 gennaio scorso, avevano ordinato «l’immediata liberazione» (se non detenuti per altro motivo) di dieci esponenti calabresi del "clan Caridi", arrestati a Natale ’97 con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti (con il Brasile) e associazione mafiosa. La decisione ebbe immediata risonanza di cronaca (per il rinnovato timore di scarcerazioni "facili" per imputati di mafia) e fu attribuita all’illegittimità e inutilizzabilità processuale delle intercettazioni telefoniche. In realtà questa presunta illegittimità costituiva solo uno dei motivi di ricorso dei difensori, ma la Cassazione non è neppure arrivata ad occuparsi di questo aspetto.
Ieri le Sezioni unite hanno depositato le motivazioni (sentenza 1/99; relatore Canzio), che risolvono un contrasto interpretativo tra sezioni semplici sulla già accennata questione della rilevabilità o meno, in Cassazione, di una decadenza che non sia stata già proposta davanti al tribunale del riesame. Il contrasto giurisprudenziale ha assunto particolare rilevanza dopo la sentenza interpretativa della Corte costituzionale del giugno dello scorso anno (232/1998) sull’articolo 309 del Codice di procedura penale, che prevede in modo tassativo la perdita di efficacia delle misure coercitive (compresa la custodia in carcere) quando non sia rispettato dal Pm il termine (cinque giorni) per la trasmissione degli atti al tribunale della libertà; ovvero dallo stesso tribunale per la decisione (altri dieci giorni). Senonché era controverso se i cinque giorni decorressero dalla presentazione del ricorso, ovvero dal momento in cui il Pm ne avesse notizia, come avveniva nella pratica. La Consulta decise nel modo più garantista, e il ministero della Giustizia diramò una circolare per evitare pur involontari effetti di scarcerazioni di massa.
Alla luce di tale evoluzione giurisprudenziale (già applicata dalle stesse Sezioni unite), la Suprema Corte ha ora ritenuto che la materia dei diritti fondamentali della persona, e in particolare la libertà, non può ricadere sull’imputato e sulla difesa; essa, anche sotto il profilo delle forme e dei tempi per il controllo della legalità della detenzione, ha assoluta preminenza sia sul piano costituzionale sia su quello delle convenzioni internazionali, che prescrivono decisioni entro "brevi termini" (Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e "senza indugio" (Patto internazionale dei diritti civili e politici). Di qui il principio di diritto, per il quale «la perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva è deducibile dall’interessato e rilevabile d’ufficio nel giudizio di Cassazione avverso la decisione del tribunale del riesame».
A.Cia.