Firmata la fine delle riforme 

da Il Corriere della sera del 25.4.99 

Non è chiaro perché tanti fingano di non capire: i risultati del referendum del 18 aprile sono stati la pietra tombale che il Paese ha (liberamente) scelto di porre sulle «riforme costituzionali». Si cominciò a parlarne circa venti anni fa, e ora è per davvero finita. 
Errori, certamente, ne sono stati commessi tanti da coloro che pensarono possibile riformare le istituzioni della democrazia italiana, in modo da renderne il funzionamento più simile a quello delle altre grandi democrazie europee. Ma credo che la strada percorsa fosse in qualche modo obbligata. Solo i referendum elettorali potevano infatti imporre, dall'esterno, un cambiamento delle regole del gioco che il Parlamento, autonomamente, senza una pistola puntata alla tempia, non avrebbe mai avallato. I referendum del '91 e del '93 diedero una fortissima spinta in quella direzione: per lo meno, in due elezioni, '94 e '96, anziché la solita minestra «di centro» buona per tutti gli usi, e per tutte le alleanze, ci vennero servite, e fu una novità, due coalizioni contrapposte (eterogenee, arlecchinesche, certo: ma chi può pretendere di cancellare in un colpo solo la storia di un Paese?), ciascuna proponente un proprio candidato alla guida del governo nazionale. Poi, andò come andò, anche perché, come era sempre stato chiaro ai riformatori, i referendum elettorali, da soli, non potevano bastare: occorreva che venissero accompagnati da un adeguamento del sistema costituzionale alle esigenze della neonata democrazia bipolare. L'adeguamento non ci fu. Da qui, il logoramento, i ribaltoni, la diffusione nell'opinione pubblica (quella che aveva votato per Berlusconi e poi si ritrovò Dini, quella che aveva votato per Prodi e poi si ritrovò D'Alema) di un senso di delusione e di frustrazione, e poi, con l'ultimo referendum, la sconfitta finale. 
Era forse inevitabile, ma è stato esiziale, che il Paese scambiasse le lotte intorno alla riforma del sistema politico (pensate alla noia che si diffuse ovunque all'epoca dell'inconcludente vicenda della Bicamerale) come una faccenda interessante solo per gli addetti ai lavori - politici, politologi, costituzionalisti -, una questione puramente «tecnica», di tecnica costituzionale, che non poteva riguardare i comuni cittadini, interessati a ben altri, più «concreti» problemi (il lavoro, le tasse, eccetera). Solo una parte dell'opinione pubblica comprese che la riforma del sistema politico metteva in gioco i fondamenti stessi della convivenza civile, che si proponeva di imporre un costume, un modo di affrontare i problemi di interesse collettivo opposto a quello fino ad allora prevalente. 
La riforma del sistema politico avrebbe dovuto essere il grimaldello per imporre un abito di moralità politica sconosciuto in Italia. Doveva rendere impossibile, per esempio, accumulare un immenso debito pubblico senza che i cittadini fossero poi in grado d'identificare (con nome e cognome) il responsabile, e punirlo elettoralmente. Doveva rendere impossibile, senza pagare prezzi politici altissimi, prendere, poniamo, voti a destra, su un programma di destra, come ha fatto ancora recentemente l'onorevole Mastella, e poi usarli a sinistra (o viceversa). Doveva rendere impossibile fare parte di un governo impegnato in una guerra e tifare apertamente per il nemico (e farsi anche ricevere da lui). 
In questo consiste la superiore moralità politica della democrazia maggioritaria, o bipolare, rispetto a quella consociativa, o consensuale (o chiamatela come vi pare): le responsabilità sono chiare, nette, facilmente individuabili, e nessuno può fare il contrario di ciò che ha promesso agli elettori senza rischiare grosso. Se fu peccato di ingenuità sperare di favorire una rivoluzione del costume mediante la riforma del sistema politico, diciamo che è valsa la pena di commetterlo. 
In fondo, dopo il crollo del Muro di Berlino, era ragionevole sperare che l'«anomalia» italiana potesse essere eliminata, era lecito scommettere su un graduale avvicinamento al modus operandi delle altre grandi democrazie. 
Ora però è finita. Poiché il Parlamento, senza costrizioni esterne, non farà mai riforme costituzionali serie, è bene che espressioni come «riforme istituzionali», «costituzionali», e simili, siano espulse definitivamente dai discorsi politici. + inutile (concordo con il direttore dell'Espresso, Rinaldi) continuare ad annoiare a morte il Paese parlando di cose - l'elezione diretta del presidente della Repubblica e quant'altro - che, come tutti sappiamo benissimo, non si realizzeranno mai. La «compagnia di giro» (di cui ha fatto parte anche chi scrive in questi anni), composta da un certo numero di politologi, costituzionalisti, politici, sempre chiamati qua e là nel Paese a discutere delle «future» riforme costituzionali, è bene che si sciolga, e i suoi componenti dedichino intelligenza e attenzione ad altri temi. In fondo, il ventennale dibattito sulle mai realizzate riforme costituzionali almeno un risultato positivo lo ha prodotto (anche se esso è di scarso interesse per il cittadino comune). Ha fatto del bene alla cultura scientifico-accademica: disponiamo oggi di una messe abbondante, e spesso pregevole, di studi sulle leggi elettorali, sul presidenzialismo, sul federalismo, eccetera, che quell'inconcludente dibattito politico ha contribuito a stimolare. Forse, chissà?, nel lungo periodo, questa migliore conoscenza delle istituzioni delle democrazie avrà ricadute benefiche anche sulla politica. Basta accontentarsi. 
Termino con una notazione apparentemente «tecnica», in realtà comprensibile anche dai non addetti ai lavori. Diversi buontemponi, dopo il risultato del referendum, si sono messi a (stra) parlare della necessità di adottare il «modello tedesco»: in verità, vogliono solo reintrodurre la proporzionale, e tanti saluti. Ho trovato comico che fra i più accesi sostenitori del cosiddetto «modello tedesco» (sistema elettorale formalmente misto, in realtà proporzionale con clausola di sbarramento) ci siano Bossi e Bertinotti, ossia i capi di due partiti, estremisti, antisistema. Il comico consiste nel fatto che essi parlano di modello tedesco senza saperne nulla. + vero, infatti, che in Germania il sistema proporzionale con sbarramento si è sposato per diversi decenni con un numero relativamente basso di partiti, e una dinamica bipolare. Ma i nostri sprovveduti germanofili non sanno perché questo è accaduto. + accaduto perché, nella fase cruciale di strutturazione del sistema dei partiti, la Corte costituzionale tedesca mise fuori legge i partiti antisistema (comunista e di estrema destra in quel caso). Senza quelle cruciali sentenze della Corte, il sistema politico tedesco si sarebbe probabilmente adagiato su una dinamica di tipo «italiano» (eterogenee coalizioni di centro, fronteggiate da un'ala di destra e da una di sinistra). Suscita il sorriso il fatto che Bossi e Bertinotti invochino un sistema che, per funzionare «alla tedesca», richiederebbe, nella fase di impianto, la messa fuori legge dei loro partiti. 
di ANGELO PANEBIANCO