I
rischi del mercato globale
da Il Messaggero del 25.1.99
di MARIO BALDASSARRI
NON E’ facile capire che cosa stia succedendo nel mondo, perché
succede e soprattutto quali eventi ci attendono nel corso di questo ultimo
anno del XX secolo. Ma forse, per cercare di capire un po’, è necessario
smentire proprio lo stesso dato anagrafico: il 1999 non è l’ultimo
anno del secolo. Infatti, nella realtà politica, economica e storica
del mondo, il ventesimo secolo è finito nel 1989, con la caduta
del muro di Berlino. Da quasi dieci anni quindi siamo tutti nel ventunesimo
secolo... ma non ce ne rendiamo esattamente conto. Purtroppo non sembrano
rendersene troppo conto neanche le classi dirigenti e politiche del mondo,
soprattutto di quei pochi paesi ricchi del Nord industriale e sviluppato
che con circa il 10% di popolazione detengono più del 70% del reddito
e della ricchezza mondiali. Nello scorso secolo infatti (cioè
fino a dieci anni fa) la contrapposizione ideologica, politica, militare
ed economica tra capitalismo e comunismo aveva aperto una grande sfida
storica, una grande gara a chi riusciva per primo e meglio a “quadrare
il cerchio”, cioè a risolvere il teorema su come rendere “equilatero”
quel triangolo che da sempre sta davanti all’uomo: libertà, benessere,
giustizia sociale. Ebbene, il capitalismo con la sua economia di mercato
ha nettamente vinto perché ha realizzato più libertà,
più benessere e più giustizia sociale. Sul grado di libertà
e di benessere realizzato dai sistemi comunisti ad economia collettiva
centralizzata non c’è infatti molto da dire. Sulla loro presunta
maggiore uguaglianza sociale basti ricordare che essa si basava non sul
rendere più ricchi i poveri ma più semplicemente sul rendere
tutti uguali perché tutti più poveri, ad eccezione dei potenti
del regime. Ecco perché oggi il capitalismo, proprio perché
ha vinto la gara del vecchio secolo, in questo nuovo secolo deve gareggiare
con sé stesso. Ma non pare rendersi ancora pienamente conto che
anch’esso non ha costruito un “perfetto triangolo equilatero”. Il “suo”
triangolo infatti ha ancora i lati molto sproporzionati e diversi tra loro.
Non a caso si è parlato dei “capitalismi” al plurale, quello asiatico,
quello europeo, quello americano ecc... E quasi come l’antica ed ancor
valida legge del contrappasso, chi vince la guerra ha la responsabilità
di costruire “pace, giustizia e benessere”, altrimenti rischia una nuova
e più tragica guerra.
Ma che cosa c’entra tutto questo con quanto stiamo vivendo in questi
giorni: la crisi asiatica, il bubbone esploso in
Russia, la crisi del Brasile, i rischi di estensione di queste crisi
“locali” ai vicini più grandi o più piccini (Cina, Argentina
ecc.), la pericolosa bolla speculativa e le montagne russe dei listini
sulle borse di tutto il mondo, il dimezzamento della crescita mondiale,
la frenata dell’economia americana, la ripresa a tartaruga dell’economia
europea ecc.? C’entra. E per capire basta scendere più direttamente
sul terreno dell’economia e della finanza internazionali.
Sul primo fronte, c’è un punto fondamentale da capire. Negli
ultimi cinquant’anni, il mondo ha vissuto il suo più lungo e
più sostenuto periodo di crescita e di benessere soprattutto
perché nuovi paesi, nuove aree, pezzi interi di nuovi continenti
sono entrati nel club dello sviluppo e sono essi stessi diventati motori
trainanti. Ecco allora la grande lezione: lo sviluppo, o si allarga e si
estende anche agli “altri”, o si rattrappisce ed implode in sé stesso.
Da qui i segnali di allarme accesi in questi ultimi anni. Nuovi motori
non se ne vedono. Quelli che sembravano accendersi si stanno invece imballando,
dal Sud-Est asiatico alla Russia, all’America Latina. Ma soprattutto due
“grandi e ricchi” motori appaiono da troppo tempo quasi fermi. Il Giappone
è bloccato dalla sua crisi strutturale. L’Europa, con alta disoccupazione
e bassa crescita, continua a crogiolarsi e narcisisticamente rispecchiarsi
nel suo stato sociale al quale sembra sempre più aggrapparsi come
ad una coperta di Linus senza capire che... il ventunesimo secolo è
già cominciato da oltre dieci anni e questo la chiama ad assumere
responsabilità storiche nuove e difficili ma anche inevitabili e
non rinviabili. Ecco perché gli Stati Uniti sono rimasti “soli”
in tutti questi anni Novanta. Ed anche il Pontefice ha suonato la campana
per segnalare i rischi e la pericolosità per tutti di un paese “solo”.
Qui si collega e nasce il secondo fronte, quello della finanza mondiale
e delle montagne russe delle borse e delle monete. Certamente tuttora gravi
sono i rischi che ci derivano dalle tre crisi di area che abbiamo avuto
in questi ultimi mesi e non è certo definitivamente evitato il contagio
verso altre aree ed il resto del mondo. Non a caso l’Argentina cerca di
giocare in contropiede proponendosi di rinunciare al suo “peso” per adottare
direttamente il dollaro e tagliare alla radice aspettative speculative.
Il vero big-bang però è collegato alla bolla speculativa
che si è andata gonfiando sulla “borsa di tutte le borse” e cioè
su Wall Street. Già dalla scorsa estate infatti l’economia americana
ha mostrato segni di rallentamento che hanno portato a ridimensionare le
prospettive di profitto delle imprese. Nonostante questo e nonostante gli
effetti successivi delle tre crisi di area ricordate, l’indice Dow Jones
ha continuato imperterrito a crescere e, dai circa 7.700 punti della scorsa
estate, veleggia tuttora ben sopra i 9.000 punti. Ciò significa
che, mentre la macchina produttiva rallenta, i valori finanziari continuano
a crescere e si allontanano sempre più dai valori reali dati dalle
prospettive produttive e di profitto. Questa è la pericolosa bolla
speculativa della borsa americana. E più va avanti e più
grave potrebbe essere il botto. D’altra parte, però, il presidente
della Federal Reserve Alan Greenspan si trova di fronte ad una difficilissima
alternativa: se alza i tassi per sgonfiare la bolla speculativa sulla borsa,
frena ulteriormente l’economia reale; se non alza i tassi per non frenare
l’economia, corre il rischio di alimentare la bolla finanziaria speculativa.
Finora, di fronte a questo dilemma, Alan Greenspan ha cercato di inventare
un nuovo strumento di politica economica, le sue “pubbliche esternazioni”,
sperando che possano consentirgli di calmare la borsa senza dover ricorrere
all’aumento dei tassi. Dovrebbe allora essere evidente che conviene a tutti
non lasciare soli gli americani. E questo dovrebbe capirlo per prima l’Europa.
Per noi infatti si tratta di rilanciare la nostra economia con serie riforme
strutturali che pongano i paesi dell’euro nella condizione di viaggiare
con la stabilità monetaria ma ad una velocità di crescita
sostenuta prendendo al più presto il testimone dello sviluppo dagli
Stati Uniti. Questo 1999 è quel tratto di pista entro il quale “deve”
avvenire il passaggio del testimone, altrimenti tutta la squadra perde
la gara. Purtroppo invece l’Europa crede ancora di poter far valere
la sua “diversità”: vuole tenersi stretto così com’è
il suo stato sociale e le sue rigide regole sul lavoro e sull’occupazione
(di chi ce l’ha) e sembra per questo accontentarsi di fatto di uno sviluppo
lento e modesto. In realtà non si accorge che rischia di non avere
sviluppo e proprio per questo di autodistruggere il suo stato sociale.
Ed anche qui si pone una legge del contrappasso. La sinistra europea che,
spesso dall’opposizione, ha spinto meritoriamente per la costruzione dello
stato sociale è chiamata oggi, in molti casi da posizioni di governo,
a realizzare la sua profonda riforma. In sintesi: meglio una riforma oggi
che un crollo delle certezze sociali domani.
Ma allora tutto questo significa che nel mondo ed in Europa sono troppo
diffusi i miopi che non riescono a vedere i rischi di queste situazioni?
Certamente no. Il vero rischio, nel mondo, in Europa ed in Italia è
che esistano troppi furbi che puntano, come sempre in passato, ad arricchirsi
sulle disgrazie altrui. Non bisogna infatti dimenticare che ogni volta
che si svaluta una moneta, ogni volta che cambiano i prezzi relativi tra
materie prime e prodotti industriali, ogni volta che la borsa va su, ma
anche ogni volta che la borsa va giù, c’è sempre qualcuno
che perde e qualcuno che guadagna. Ogni volta cioè si spostano fette
importanti di potere e di ricchezza da un continente all’altro, da un paese
all’altro, da un gruppo sociale all’altro. E quando l’economia va bene,
il potere ed il reddito si diffondono, la democrazia e la libertà
si consolidano. Quando va male, il potere si concentra, la libertà
si restringe e la democrazia corre rischi.
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