Il
soffio vitale della democrazia
da Il Corriere della sera del 25.7.99
Forse sta nascendo sotto i nostri occhi, senza che ce ne accorgiamo,
il primo governo europeo a doppia legittimazione: nazionale e popolare.
Il precedente nacque per volontà nazionale (degli Stati membri)
e cadde per volontà popolare (del Parlamento europeo). Le due volontà
sono ora chiamate ad esprimersi in modo costruttivo nello stesso momento.
Nel 1994 i governanti europei non avevano nascosto di volere, dopo
i dieci anni forti di Jacques Delors, una Commissione debole; il Parlamento
europeo appena eletto non aveva osato contrastarli, come avrebbe potuto
se avesse esercitato davvero il potere di investitura appena acquisito.
Era un momento buio: l'Europa era giunta impopolare e stremata alla ratifica
del trattato di Maastricht; le monete erano alla deriva e l'economia in
recessione; alcuni Paesi minacciavano ritorsioni contro quelli che avevano
svalutato. I saggi patentati profetavano che l'Unione monetaria non si
sarebbe mai fatta.
Nell'aprile scorso, quando la prova finale della debolezza della Commissione
Santer fu data dalle dimissioni di tutti i suoi membri, quasi nessuno dei
governanti del 1994 era più al potere. Quelli nuovi affrontarono
la crisi con più umiltà e saggezza dei loro predecessori.
Iniziò un processo, ancora in corso, che potrà infondere
nell'Europa il soffio vitale della democrazia e della politica.
All'origine vi sono le riforme istituzionali introdotte dai trattati
di Maastricht e Amsterdam. Esse hanno reso il modo di formazione della
Commissione sorprendentemente simile a quello di un governo nazionale.
Nell'Unione, Parlamento e governo (vale a dire la Commissione) hanno uguale
durata e i tempi sono regolati affinché la formazione dell'uno e
dell'altro possano influenzarsi reciprocamente. Programmi, persone e orientamenti
politici del governo europeo possono, infatti, essere dibattuti nella campagna
elettorale e conformarsi al suo esito. La Commissione continua, sì,
ad essere formata dai governanti nazionali riuniti nel Consiglio europeo,
ma non può insediarsi senza il voto di fiducia del Parlamento. Il
suo presidente ha (come accade in Germania, ma non in Italia) la forza
che gli viene dall'aver ricevuto un'investitura parlamentare prima che
siano designati i ministri (i commissari). Gli Stati non possono designare
i ministri senza il consenso del presidente. Egli è colui che assegna
a ciascuno di loro l'incarico, che può poi modificare e addirittura
svuotare d'ogni contenuto.
La formazione del governo europeo si configura dunque come un processo
che è politico in tutte le sue parti. Ormai non è politica
soltanto l'azione dei governanti nazionali nel momento dell'investitura.
Lo è anche quella del presidente della Commissione, che da «funzionario
di nomina politica» è divenuto soggetto politico attivo esso
stesso. Sono soggetti politici europei le formazioni di partito, costrette
a creare piattaforme comuni, prima nella campagna elettorale, poi nel Parlamento
eletto. I partiti fanno sentire la loro voce al presidente designato e
ai governi. Tra presidente e formazioni politiche in Parlamento si stabilisce,
nell'accordo ma anche nel contratto, un rapporto che rafforza entrambi
e che i governi nazionali non possono ignorare.
La crisi di primavera è iniziata come un attacco del Parlamento
alla Commissione, ma è rapidamente diventata un confronto tra Parlamento
e governi nazionali, i portatori delle due diverse legittimazioni. Nei
tre mesi che sono seguiti abbiamo visto realizzarsi alcune delle potenzialità
insite nelle riforme istituzionali ora descritte. Tra presidente designato,
forze partitico-parlamentari e governi nazionali si è instaurato
un circuito politico che non ha precedenti in cinquant'anni di storia comunitaria.
Nel giudizio di molti osservatori e cittadini, queste realizzazioni
non sono bastate a riscattare la delusione per la bassa affluenza di elettori
alle urne e per la povertà di temi propriamente europei nella campagna
elettorale. La delusione è comprensibile, ma ritengo che i progressi
siano più importanti dei pur gravi inconvenienti lamentati. In fondo,
quegli inconvenienti non sono assenti neppure nella democrazia americana,
dove la percentuale dei votanti è bassa e la scelta del presidente
costituisce l'unico momento politico che coinvolge l'intera nazione.
Può dunque nascere un governo europeo che trovi, per la prima
volta, legittimazione in due volontà: quella degli Stati membri,
attraverso il Consiglio europeo, e quella dei cittadini, attraverso il
Parlamento eletto.
Non è un mutamento di poco conto. Rafforzare la radice democratico-popolare
significa immettere nell'Unione la linfa necessaria per alimentarne l'ulteriore
sviluppo nei campi della sicurezza interna ed esterna; dare un fondamento
alla cittadinanza europea; accentuare il carattere di unione politica insito
nelle realizzazioni economiche e monetarie già compiute; rafforzare
le due sole istituzioni (Parlamento e Commissione) che sono esclusivamente
dell'Unione. Significa dotare anche l'Unione del motore senza il quale
nessun sistema politico vivrebbe e progredirebbe: la competizione, e perfino
la lotta, politica tra programmi, partiti, personalità. L'altro
motore, la cooperazione, che nasce dalla radice statale nazionale, ha fatto
compiere enormi progressi all'unificazione europea e rimarrà necessaria;
ma ha raggiunto il limite di ciò che può dare da sola.
Nella storia dell'unificazione europea il principio della doppia legittimità,
presente già nel primo trattato, si è andato via via rafforzando
e dovrà, in un'unione politica compiuta, permeare l'intera costruzione.
Oggi si realizza in modo ancora parziale e squilibrato, per il prevalere
della radice statale e nazionale rispetto a quella democratico- popolare.
La prevalenza si manifesta in diversi modi: regola dell'unanimità,
possibilità di legiferare contro il volere del Parlamento, poteri
esecutivi attribuiti al Consiglio dei ministri anziché alla Commissione.
Che i governi nazionali trovino legittimazione essi stessi nel voto
popolare non basta a conferire, come alcuni sostengono, legittimazione
democratica alle decisioni del Consiglio dei ministri. Quel voto popolare,
infatti, è un voto nazionale, in cui l'interesse pubblico che guida
sia l'elettore sia il candidato è quello dello Stato nazionale,
non quello europeo. Solo radicando più fortemente le istituzioni
e le decisioni nel suo Parlamento, e così riequilibrando le due
radici della propria legittimazione, l'Unione europea potrà acquistare
la forza necessaria per affrontare gravi problemi che sono suoi. «Suoi»
perché sofferti da tutti gli europei e perché privi di soluzioni
in àmbiti solo nazionali.
di TOMMASO PADOA-SCHIOPPA
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