Creditori sempre più penalizzati, costi troppo elevati e tempi biblici per la chiusura

L’insostenibile peso dei fallimenti 

da Il Sole 24 ore del 25.5.98

Il sistema economico italiano? Si sa: gioca con gravi handicap. Ma tra i
molti già noti, c’è un elemento distorsivo tanto grave quanto poco
evidente: è il fallimento delle leggi sui fallimenti e sulle altre procedure
legate alle crisi di impresa. Un fattore potente, che contribuisce a
rendere difficile il rapporto tra banche e imprese. L’ultimo atto d’accusa
? molto circostanziato — emerge dal Terzo rapporto sul sistema finanziario della Fondazione Rosselli, dedicato proprio a «Crisi d’impresa e risanamento».
In parte per le sue carenze, in parte per la mancanza di una via d’uscita
veloce e non eccessivamente costosa, la banca tende ad applicare un
“premio al rischio” troppo elevato e ciò avviene specialmente quando il
debitore è piccolo e collocato in aree deboli. Uno studio di Lorenzo
Caprio sui costi delle procedure concorsuali e della gestione delle crisi
pubblicato nel rapporto della Fondazione Rosselli getta nuova luce sulle
cause del fenomeno. Alla base della ricerca c’è una rilevazione
realizzata da un gruppo di docenti del Centro studi finanziari
dell’Università Cattolica di Milano che hanno lavorato su dati Istat,
Mediobanca, Sasip-Databank e sugli archivi del ministero dell’Industria.
E hanno svolto anche un’indagine sul campo nei Tribunali di Milano,
Lodi, Piacenza, La Spezia e Ancona.
L’esito, i costi e i tempi. La fotografia scattata è sconfortante: per quanto
riguarda i fallimenti, tra l’84 e il ’93 oltre il 45% dei procedimenti si è
chiuso per insufficienza dell’attivo. Dall’altro estremo, solo nel 4,3% dei
casi i creditori sono stati pagati integralmente e per un altro 3% si è
arrivati al concordato. L’insoddisfazione dei creditori (e la prudenza di chi
presta denaro) si spiega tutta con queste cifre, alle quali nell’analisi dei
docenti milanesi si aggiunge la notevole entità dei costi diretti legati ai
fallimenti. «Nelle procedure chiuse tra l’84 e il ’93 — spiega infatti Caprio
? questa voce ha pesato per il 4,05% del passivo accertato, ovvero del 19,10% dell’attivo realizzato. Percentuali di rilievo, che suggeriscono un’assoluta importanza dei costi del fallimento per le scelte di struttura finanziaria delle imprese».
I creditori non hanno motivo di essere scontenti solo perchè il denaro
non viene loro restituito: il danno risulta amplificato dalla lentezza
esasperante dei fallimenti. Nei dieci anni considerati, la durata media
delle procedure è stata di 1.614 giorni, cioè più di quattro anni. Ma il
fatto grave è che, nonostante sembri difficile vista la situazione attuale,
tutti gli elementi considerati — costi, tempi e grado di soddisfazione —
tendono a peggiorare ulteriormente. «Nel 1984 — aggiunge Caprio — la
perdita subita dai creditori rappresentava il 79,3% del passivo. Nel ’93 la
quota è salita all’83,9 per cento. I costi diretti erano pari in media al
17,4% dell’attivo nell’84 e al 21,5% nel ’93. Nello stesso periodo la
durata media per i fallimenti è salita da 1.622 a 1.917 giorni».
Gruppi societari. C’è ancora da stupirsi se trionfa ovunque il “fai-da-te”?
Gli accordi extra-giudiziali sfuggono alle rilevazioni, ma sull’entità del
fenomeno non ci sono dubbi. Secondo un’indagine campionaria della
Banca d’Italia, circa un terzo del credito soggetto a insolvenza trova
sistemazione attraverso procedure stragiudiziali. Limitandosi solo alle 28
ristrutturazioni stragiudiziali che negli anni ’90 hanno coinvolto società
quotate, è stato sistemato un debito complessivo di 53mila miliardi. Ma
all’interno di questa cifra va considerato il caso Ferfin-Montedison, una
partita che da sola vale 35mila miliardi.
Cosa succede invece quando il debitore in difficoltà non è una piccola
azienda ma un gruppo medio-grande? Di solito si applica una procedura
particolare, l’amministrazione straordinaria ex lege 95/1979, che
dall’anno del suo varo al ’96 ha coinvolto 63 gruppi societari per un totale
di 462 aziende. Con risultati discreti, se paragonati alla situazione
fallimentare delle norme sul fallimento. Il primo aspetto positivo da
sottolineare è rappresentato dalla continuità dell’esercizio dell’attività
d’impresa, che ha riguardato 354 società (il 76,6% del totale). Meglio
andare piano con l’ottimismo, però, visto che a fine ’96 solo una
percentuale inferiore al 20% delle procedure avviate si era chiusa, con
durate medie superiori agli 8 anni.
L’indagine empirica realizzata da Alberto Floreani analizza i 56 casi di
procedure chiuse: il 19,7% di questi si è concluso con pagamento
integrale o revoca dell’assoggettamento, il 30,4% per concordato, il
23,2% per liquidazione dell’attivo e il 26,8% per insufficienza dell’attivo.
L’ammontare complessivo di rimborso dei debiti è stato stimato di poco
inferiore al 40 per cento. Nel caso dei fallimenti, il grado di soddisfacimento medio non supera invece il 22 per cento.
Guido Plutino