Parigi
teme la «Repubblica dei giudici»
da Il Corriere della sera del 25.5.98
Indagini su tutti i mali di Francia. L’opposizione strepita, anche il
governo è inquieto
Stefano Cingolani
SEGUE DALLA PRIMA
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI - «A sole due massime ristrignevano gli antichi Filosofi
la lor più sincera filosofia: Sopportati e Astienti. A due altresì
i Politici riducono la lor professione: Simola e Dissimola». Memore
dei precetti del cardinal Mazzarino, la Francia
ha presentato al mondo il volto di uno Stato che funziona e di una
politica forse invadente, ma onesta. Improvvisamente, sembra colpita dal
virus italiano. La pista della corruzione era stata imboccata più
volte; sempre, però, portava in un
vicolo cieco. Ora, sembra che i muri stiano crollando.
Il giudice Eric Halphen aveva cominciato nell’ottobre 1996 a indagare
su Xavière Tiberi, moglie del sindaco di Parigi accusata di aver
ricevuto 210 mila franchi (circa 60 milioni di lire) per un rapporto sulla
francofonia. Un prezzo del tutto irrealistico che nascondeva a mala pena
una gran puzza di bruciato. Poi erano spuntate come funghi le inchieste
(sono arrivate a dieci) tutte su passaggi di denaro per finanziare in modo
occulto il partito gollista. Parigi è il feudo di Jacques Chirac,
sindaco della città dal 1977 al 1995. Non si tratta, dunque, di
piccole malefatte locali. Il 4 luglio 1997, la Corte d’appello cassò
la procedura e sembrava che tutto dovesse arenarsi in un parigino «porto
delle nebbie».
Lo stesso o quasi era accaduto a Eva Joly, energica norvegese trapiantata
in Francia e Laurence Vichnievszky, di origine polacca. Le due giudici
avevano indagato per anni su Roland Dumas, presidente del Consiglio costituzionale
(quinta carica della Repubblica) incappato in un giro di tangenti. Quando
l’amico intimo di Francois Mitterrand, avvocato di Picasso e Giacometti,
gran uomo di mondo, occupava la carica di ministro degli Esteri, una signora
diventata sua amante si era fatta passare tangenti cospicue dalla Elf (la
società petrolifera di Stato) promettendo di poter sbloccare, grazie
alla sua influenza particolare, una fornitura di fregate militari destinata
a Taiwan. La Joly e la Vichnievszky avevano accumulato indizi e testimonianze,
senza poter penetrare, però, nel sancta sanctorum dell’illustre
personaggio.
A lungo ha dovuto aspettare anche il giudice istruttore di Tolone prima
di arrivare ai potentati locali del Fronte nazionale che avrebbero intascato
quasi 2 miliardi e mezzo di lire in cambio di appalti delle mense scolastiche
(dal ‘95 il partito di estrema destra governa la città, ma l’intera
regione è un feudo lepenista).
Ancor più imbrogliata la matassa in Corsica, dove una pratica
decennale di patteggiamenti ha consentito che le banche concedessero prestiti
senza condizioni ai boss dell’isola per ottenere in cambio il controllo
del territorio. Ora nelle maglie della giustizia sono finiti Michel Valentini,
presidente della Camera regionale d’agricoltura, e il Crédit Agricole.
Mentre solo oggi si stanno diradando le prime ombre sul più
grande crac bancario della storia d’Europa. Il Crédit Lyonnais era
diventato la vacca che ogni potente della politica, della stampa e degli
affari, poteva mungere a suo
piacimento. È stato salvato a carico dei contribuenti francesi
(perdite calcolate in 35 mila miliardi di lire) e, dopo quasi dieci anni,
qualcuno dei responsabili viene formalmente incriminato.
Il mossiere che ha fatto partire questa «folle corsa verso l’abisso»
non è affatto occulto: occupa l’hotel Matignon, fa il primo ministro
e si chiama Lionel Jospin - attacca dall’opposizione Philippe Seguin, presidente
dell’Rpr, il partito
neogollista. Il governo di sinistra userebbe i giudici contro il presidente
della Repubblica, anche a costo di destabilizzare la Francia. Esattamente
come in Italia. Volano ricatti e avvertimenti espliciti; Jospin «l’incorruttibile»
viene accusato di aver continuato a prendere uno stipendio da funzionario
del ministero degli Esteri tra il 1993 e il ‘97, quando era ormai dirigente
del partito socialista.
Chi ha aperto il vaso di Pandora, dunque, rischia di essere travolto
dalle forze incontrollabili che ha liberato. Scrive Ivan Rioufol su Le
Figaro: «La giustizia spettacolo» prende il sopravvento e «lo
Stato non ha più i mezzi per controllarla.
Essa è solo teoricamente sotto il suo potere gerarchico. Lo
Stato è divenuto lo spettatore dell’autorità giudiziaria,
legittimata dall’opinione pubblica nella sua lotta contro la corruzione.
Il rischio oggi è di diventarne la vittima».
Sia Jospin sia Chirac, così, rivolgono un invito a tenere i
nervi saldi e non strumentalizzare (né ostacolare) le indagini.
Il giustizialismo rischia di diventare una scorciatoia liberatoria. Il
40% degli elettori non si è presentato alle urne nelle ultime regionali.
Un Paese lacerato dalla «frattura sociale», reso immobile dalla
paura del futuro, incerto sul presente, ha bisogno di un lavacro collettivo
e di teste da offrire sull’altare di una riconciliazione, di un nuovo patto
tra lo Stato e il
popolo.
Anche in Francia, allora, si profila una «repubblica dei giudici»?
I gollisti già lo denunciano a chiare lettere, i socialisti tacciono,
ma sotto sotto lo temono. «Per lungo tempo, la società francese
è stata una società ordinata, anche se talvolta
era un ordine ingiusto - spiega Hubert Haenel, senatore gollista e
giurista, nel suo libro “Il giudice e la politica” -. In questo sistema,
il giudice era l’agente che eseguiva gli ordini del sovrano legittimo».
Le cose sono cambiate nel momento
in cui il sociale e l’economico si sono «emancipati» dalla
politica: il magistrato, così, è diventato una sorta di Robin
Hood al quale i deboli si appellano contro il sovrano o ha preso il posto
del «banditore» di Leon Walras che dovrebbe regolare il mercato
perfetto. Tornare agli equilibri precedenti è ormai impossibile,
ma i pericoli di una magistratura che assume «uno statuto messianico»
sono evidenti.
La Francia ci racconta una storia simile a quella italiana. Certo,
le differenze sono molte e nient’affatto marginali. Il sistema politico
non ha rischiato di trasformarsi in «regime»; semmai ha sofferto
per eccesso di mobilità (13 governi dal 1981, quando viene eletto
presidente Fran´ois Mitterrand, con 9 primi ministri e 5 cambi di
maggioranze). Nessuno ha mai minacciato l’unità della nazione e
nemmeno il più accanito liberale si spinge fino al punto da mettere
in discussione il ruolo centrale dello Stato. Ma il ciclo storico dell’«eccezione
francese» si sta chiudendo.
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