I boss presi e scarcerati

da la Repubblica del 25.11.99

dall'inviato MASSIMO DELL'OMO 
CERIGNOLA - Da queste parti si ragiona all'inverso. E dunque fa scalpore che un personaggio come Giuseppe Mastrangelo - condannato a due ergastoli per quattro omicidi e ad altri 30 anni per associazione mafiosa, droga ed estorsione - sia ancora detenuto. 
FA scalpore perché un sacco di suoi ex soci d'affari - pene varianti dai 10 ai 25 anni - sono invece liberi con l'unico obbligo di una firma giornaliera in Questura. Roba che nemmeno loro ci avrebbero creduto. Oppure, per i meno fortunati, ci sono gli arresti domiciliari notturni. Sì, perché di giorno, in pratica, sono liberi di fare ciò che vogliono. C'è anche chi, assunto da un imprenditore sensibile, più che al buon cuore, alle pressioni locali, ha deciso di lavorare tre ore la mattina e tre il pomeriggio, ma in maniera flessibile, a propria discrezione. O chi, l'orario di lavoro non ce l'ha proprio. Fa il libero professionista. Prendete, ad esempio, quel signore dall'aria dimessa e dalla barba lunga che fa il guardamacchine davanti ad un noto ristorante di Cerignola. Ha l'aria un po' sfessata del povero diavolo. Anzi, a volte, sembra uno scimunito. Si chiama Giovanni Ferraro. E' meno vecchio di quel che sembra. Ha 35 anni. Fino a un po' di tempo fa aveva in mano - con altri due boss, i fratelli Piarulli - l'intero traffico di droga di Cerignola. Con centinaia di dipendenti. Caduto nella rete della famosa "Operazione Cartagine" è stato condannato in primo e in secondo grado: 24 anni e sei mesi. In teoria sarebbe dovuto restare in prigione fino al 2022. Invece è uscito con 23 anni di anticipo. 
Se volessimo stringere all'osso le motivazioni della scarcerazione dovremmo dire che la prigione lo faceva star male. In termini clinici si parla di catatonia totale. Disturbi psichici, insomma. Questo è il termine che sta in mezzo ai due numeri chiave del maxiprocesso seguito all'operazione Cartagine: 53 condannati, una trentina in libertà malgrado le pene sulle spalle. Perizie mediche facili? Perizie comprate? Perizie estorte? Qualche indizio c'è. Ma, per capirlo va raccontata Cerignola.
Che è un paesone di sessantamila persone, un tempo braccianti, con gloriose tradizioni sindacali. Un paesone rurale che, agli inizi degli Anni Ottanta, viene investito dalla modernizzazione. Spariscono in un batter d'occhio i vecchi legami comunitari, la solidarietà. Spariscono perfino i vecchi capoclan. Nel flusso di denaro legato ai nuovi investimenti, arriva anche la droga. E, con la droga, i nuovi uomini di rispetto. Moderni e spietati. "La mafia cerignolana - spiega il sostituto procuratore, Enrico Carofiglio, che imbastì l'operazione Cartagine e i successivi maxiprocessi - non pratica affiliazioni, non conosce i gradi tipici della 'ndrangheta e della sacra corona unita, ed anzi li disprezza e li evita. Sono considerati come inutili e dannosi fattori di rischio per l'eventuale identificazione del sodalizio". "I battesimi sono pagliacciate. Sono buoni per farsi scoprire", disse il primo pentito di quella mafia. E spiegò che la vera affiliazione avveniva con l'atto criminale, l'omicidio, magari. "Non per soldi, per soldi lavorano i killer - aggiuse - ma perché volevo elevarmi, volevo essere qualcuno, volevo appartenere...". In pochi anni, di omicidi, ne vengono compiuti più di 50. Finchè la banda vincente dei fratelli Piarulli e di Giovanni Ferraro non ha il controllo assoluto dell'intera città. Centinaia e centinaia di estorsioni, tutto il mondo commerciale e imprenditoriale taglieggiato, traffico imponente di hashish, cocaina ed eroina, sequestri lampo. Ma l'inferno di Cerignola non finisce qui. 
"L'altra peculiarità della mafia cerignolese - racconta ancora Enrico Carofiglio - è che tollera - a differenza di altre organizzazioni - una microcriminalità straordinariamente aggressiva operante entro i rigidi confini delineati dalla macrocriminalità". Una tolleranza che, forse, è come l'allevamento di un vivaio di manodopera cui attingere all'occorrenza. Sta di fatto che si arriva al punto che i rappresentanti di commercio non vanno più a Cerignola. Il controllo della città, da parte dei mafiosi, è così capillare che persino due investigatori della Dia in borghese rimangono impigliati in quello che, per il gioco dei rovesci, potremmo definire un posto di blocco. "Che ci fate qui a Cerignola?", chiedono i delinquenti. "Vendiamo enciclopedie", rispondono i poliziotti. "Beh - replicano gli altri - toglietevi dai coglioni che qui le enciclopedie non interessano a nessuno". Insomma, poliziotti e carabinieri, talvolta sbeffeggiati, stranieri in territorio italiano. Fino a dove arrivava lo strapotere dei capiclan e delle centinaia di manovali al seguito? Gli investigatori dicono che non esiste una cupola di ordine superiore a quella già individuata nei fratelli Piarulli e in Giovanni Ferraro. Se però seguiamo l'estendersi delle metastasi, si arriva in una zona grigia nella quale troviamo i nomi di alcuni professionisti pugliesi. 
Tre episodi. Il primo vede coinvolto un noto avvocato di Cerignola che fornisce un alibi - falso - ad un accusato di omicidio. Ma questo ci porta ad altre storie. Sono gli altri due episodi che invece investono il problema delle perizie. Riguardano tutti e due l'attuale detenuto nel manicomio di Montelupo Fiorentino, Giuseppe Mastrangelo. Il quale, durante una rapina, viene riconosciuto da numerosi testimoni. Per di più, lascia sul posto il proprio passamontagna con, attaccato, un ciuffo di capelli. Malgrado l'evidenza dei fatti, il medico dell'Istituto di medicina legale di Bari, stila una perizia nella quale dichiara che i capelli ritrovati nel passamontagna non appartenevano al Mastrangelo. Una successiva perizia stabilirà poi il contrario. Ancora più clamoroso il terzo episodio. Un pentito rivela ai magistrati che Mastrangelo è in procinto di gambizzare un professionista barese. Il ferimento avviene qualche giorno dopo, ma - a prima vista- risulta inspiegabile. La persona gambizzata è un architetto senza precedenti penali che non ha niente a che vedere con mafie e cosche. Dopo faticose indagini gli investigatori scoprono che l'architetto ferito è l'amante della moglie di un noto oculista di Bari. Il quale oculista ha più volte certificato - a discarico del Mastrangelo - una fortissima miopia che lo rendeva incapace delle imprese di cui era accusato. Tanto che il killer si era guadagnato il soprannome di "Cecato".
"Ora - dice il sostituto procuratore antimafia Michele Emiliano, che conduce l'inchiesta sull'uccisione del giovane Ciannamea - non facciamo di tutta l'erba un fascio. Il problema delle perizie esiste. Ma esiste innanzitutto per le lungaggini dei processi. Noi, all'antimafia, non siamo in grado di fare più di due udienze al mese. Così passano anni. E in questi anni si presentano decine di istanze. Gli imputati riescono a imbastire operazioni di lunga durata. Ad esempio, di fronte a un detenuto che rifiuta il cibo, non parla, non si muove, si fa crescere la barba per mesi e mesi. Alla fine, vuoi per convinzione, vuoi per paura, c'è sempre un medico disposto a firmare una perizia di infermità mentale". Magari anche una trentina su 53 condannati.