Perry Mason non abita da noi
Da Il Sole 24 ore del 25.10.99 Quando, nel 1989, il nuovo Codice di procedura penale entrò in vigore, fu accolto da un’ondata di ottimismo emotivo: si inneggiò al processo anglosassone, accusatorio e orale, contrapponendolo a quello fascista del ministro Rocco, inquisitorio, scritto e segreto. Dimenticandosi che, come è meglio avere una legge stupida e un giudice intelligente piuttosto del contrario, così è meglio avere un codice coerente piuttosto che un confusionario colabrodo. E ora, dopo dieci anni di integrazioni legislative e demolizioni della Corte costituzionale, del nostro codice si può dire tutto e il suo contrario. È un enigma, avvolto in un indovinello, dentro un mistero. Il processo alla Perry Mason, come generalmente viene chiamato, è infatti un lusso fragile e costoso, che la pragmaticità anglosassone distilla attraverso i filtri di rigorose selezioni: la discrezionalità dell’azione penale, cioè la scelta di perseguire i reati in base al loro concreto allarme sociale; la sua retrattabilità, cioè la possibilità per la pubblica accusa di far marcia indietro quando l’indagine si riveli improduttiva; e l’ampio uso dei patteggiamenti, ai quali l’imputato è stimolato dalla prospettiva di un forte sgravio di pena, se vi fa ricorso, e dalla durissima punizione se non ne ha approfittato. Esso poggia su due ulteriori principi fondamentali: la divisione delle carriere e la distinzione tra giudice del fatto e del diritto. La decisione sulla colpevolezza dell’imputato è affidata alla giuria popolare, mentre la regolarità del processo è assicurata dal magistrato, che in caso di condanna infligge la pena. La sola idea che il giudice provenga automaticamente dai ranghi dei pubblici ministeri e ne sia vincolato attraverso appartenenze associative o correntizie, come accade da noi, solleva nei colleghi d’oltremanica o d’oltreoceano, un misto di ilarità, indignazione e sorpresa. Si capisce dunque perché noi viviamo in un altro pianeta, che appartiene a un sistema dove esso ruota in senso contrario rispetto ai gemelli. In Italia si è infatti introdotto il sistema accusatorio mantenendo inalterati gli istituti tipici del vecchio processo inquisitorio: l’azione penale è obbligatoria e irretrattabile, i patteggiamenti sono ridotti al minimo, le carriere dei magistrati non distinguono tra giudicanti e inquirenti, l’ambigua parola di un pentito, raccolta in segreto, può valere come prova. E infine, cosa più deplorevole, il legislatore continua a elaborare nuove figure di reati bagattellari che, senza intimidire nessuno, intasano i tribunali. Abbiamo creato un mostro ibrido, un minotauro con la testa di Perry Mason, le gambe di Alfredo Rocco e il corpo di origine incerta: una Ferrari con il motore della cinquecento costretta a correre sul greto di un fiume. Naturalmente è impensabile ritornare al vecchio rito sia perché il processo accusatorio è più garantista e quindi più adeguato allo spirito del tempo in cui tutti si dicono liberali; sia perché le pur modeste strutture giudiziarie si sono ormai modellate su questo schema e non possono essere demolite a pena di un totale sfacelo. L’unica soluzione consiste dunque nell’attuazione completa della riforma, abbattendo le ultime resistenze di quella parte della magistratura nominalmente progressista ma di fatto conservatrice e adeguando la Costituzione ai principi del cosiddetto giusto processo. Se questo sia nella possibilità, oltre che nella volontà, del nostro legislatore, è tuttavia altra questione. Carlo Nordio
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