La prova, anima del processo
da Il Mattino del 25.10.99
Giuseppe Maria Berruti
Credo che Andreotti o il più modesto sottoscritto possano finire
sotto processo allo stesso modo senza che questo rappresenti un dramma,
se non personale. In uno stato di diritto non esistono immunità.
Ma penso pure che per Andreotti, come per me, la ragione debba prevalere
sul puro esercizio del potere, politico o giudiziario che sia.
A Sorrento i magistrati si sono interrogati sul problema della prova.
Essi sanno quanto è urgente tornare a distinguere le ragioni che
bastano a processare da quelle che servono per condannare, e sentono che
soprattutto la straordinaria sottolineatura dei diritti di libertà
individuale che si sta compiendo determinerà d’ora in avanti la
valutazione collettiva della loro funzione. Non sottovaluto affatto la
questione della sicurezza, ma i tribunali non sono stati inventati per
fare ordine pubblico al posto della polizia. Ai magistrati spetta di dire
se una persona deve essere processata per verificare se certi fatti, testardamente
concreti al punto da resistere agli argomenti, sono stati commessi oppure
no. Questa funzione è stata annacquata da un processo lontano dalla
nostra tradizione ma, sopratutto, va detto con chiarezza, mal inteso da
troppi e triturato da interventi che ne hanno reso confusa la logica. Le
regole sulla prova sono spesso sostituite dal modo di intenderle del magistrato.
La prova è l’anima del processo. Attraverso la sua costruzione
la civiltà si è liberata del peso morale della giustizia.
Il processo cerca le prove perché sono esse che condannano, non
l’uomo che pronuncia la sentenza e che si copre con la toga proprio per
mettere da parte la sua persona e diventare voce neutrale. Questa cultura
antichissima si è allentata da quando al magistrato sono stati attribuiti
compiti nuovi. Il pm è diventato responsabile della indagine. I
risultati concreti dell’investigazione di polizia, la quale deve fare uso
di strumenti impalpabili come il sospetto o la ipotesi, sono messi a carico
dello stesso soggetto che può chiedere il rinvio a giudizio. Perciò
l’organo che deve garantire le forme fino a cercare, come dice la legge,
anche le prove della innocenza, mette il proprio acume giuridico al servizio
di una tesi investigativa. E siccome la prova si accerta in dibattimento,
come si ripete anche senza capire bene cosa si dice, innumerevoli accuse
ingolfano i tribunali, e la differenza di professionalità tra inquirente
ed inquirente finisce con l’essere il vero discrimine tra processi giusti
e processi inutili.
Ma il problema riguarda tutti i magistrati. Un processo contro un grande
leader che finisce a sette anni dalle indagini, che stressa le istituzioni
in uno scontro durissimo nel quale si esamina il modo di fare politica
nel Sud da decenni, alla fine non trova le prove.
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