Cordova: i pentiti vanno gestiti con rigore 

da Il Mattino del 25.10.99

DALL’INVIATO A SORRENTO 
GIGI DI FIORE 
La sua fiondata è la ciliegina finale su un intervento che, fino a quel momento, era apparso quasi distaccato e privo di eccessive passioni. Arriva in conclusione, ma arriva la difesa del ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. A 24 ore dalla sentenza Andreotti e in contemporanea alla pubblicazione sui giornali delle critiche politiche indirizzate ai magistrati della Procura di Palermo. Il ministro, che era rimasto zitto nella giornata dei commenti a caldo, parla dalla tribuna del convegno sul processo penale organizzato a Sorrento dall’Associazione nazionale magistrati. Il giorno dopo. Con passaggi diversi. Ma chiari, per chi voleva intendere. 
«I pericoli non sono lievi, nè remoti - dice Diliberto - È in gioco il complessivo assetto istituzionale. Io difendo il modello di indipendenza della magistratura, a cui ho giurato di essere fedele al mio insediamento. Ma io chiedo a voi di farmi essere all’altezza delle mie responsabilità, perchè i tempi che viviamo non sono semplici». 
La sala applaude. Il ministro ha colto nel segno. E, in quella che per tre giorni è diventata idealmente la «tana» dei magistrati italiani, dimostra apertamente cosa pensa delle polemiche in corso. Chiarendo le sue idee sui confini tra politica e giurisdizione. Ecco ancora Diliberto: «Bisogna contrastare i politici che intervengono sulla giurisdizione, commentando le sentenze. Quei politici che affrontano le decisioni giurisdizionali come fossero una contesa agonistica di lotta politica». 
Il riferimento è troppo chiaro, per lasciare insensibile l’assemblea di giudici. I cenni sono tutti di assenso. Mentre il ministro aggiunge: «Con la stessa chiarezza, però, devo dire che le leggi le fa il Parlamento, che possiede la legittimazione democratica che gli deriva dal giudizio degli elettori. È tempo che la politica riprenda il suo ruolo nel rispetto delle reciproche competenze. Ciò aiuta la magistratura». 
L’occasione pare davvero quella più adatta, per prendere posizione sui commenti alla sentenza di Palermo. Con riferimenti diretti. Dice il ministro: «È partita una campagna che non condivido contro la magistratura e parte di essa. Non credo che questa campagna aiuti nessuno. Finchè sarò al ministero, mi batterò con convinzione per garantire l’indipendenza della magistratura. Non per difendere la magistratura, ma per tutelare la collettività. Difenderò sempre il principio dell’unitarierà della giurisdizione. Non giovano le strumentalizzazioni delle sentenze, non vorrei che dietro ci sia un tentativo di aggredire l’indipendenza della magistratura». 
No alla separazione delle carriere, ma no anche alle risse e alle posizioni di parte. Il ministro invita tutti all’equilibrio, sui temi della Giustizia. E lo fa prima dalla sala, dinanzi ai magistrati, ribadendo subito dopo quei concetti anche dinanzi alle telecamere. Dove puntualizza questioni diverse: «Credo che la riforma dei pentiti, che restano uno strumento essenziale, vada fatta. Bisogna disciplinare attentamente la loro gestione e valutare la loro attendibilità». E sulla legge Carotti e le ipotesi di legare a un massimo di tre anni la permanenza dei magistrati all’ufficio Gip: «Cercheremo, nel percorso parlamentare, le soluzioni e i correttivi più idonei. Concordo con i gridi d’allarme lanciati dagli uffici». 
Il resto, nell’uscita pubblica dinanzi agli esponenti dell’Anm, sono anche cifre: 502 miliardi disponibili in più, rispetto allo scorso anno, per strutture, come videoconferenze, stenotipia, casellario, personale; 800 miliardi per il piano straordinario di edilizia giudiziaria; 450 dipendenti, su 700 prossimi assunti nella pubblica amministrazione, riservati al settore Giustizia. 
Alla fine, quella battuta sembra condensare tutto il peso che, da almeno una decina d’anni, grava sugli inquilini del ministero di via Arenula. «Ci vuole pazienza, molta pazienza per affrontare tutti i problemi della Giustizia. Pazienza equamente distribuita in tutte le direzioni. Vi posso assicurare che, in un anno, la mia pazienza è stata messa davvero a dura prova». 
DALL’INVIATO A SORRENTO 
Fa appena in tempo a sentire la parte conclusiva del discorso del ministro Diliberto. E fa cenni di assenso, mentre ascolta quelle parole a difesa della magistratura. Proprio al terzo e ultimo giorno del convegno nazionale dell’Associazione magistrati, arriva a Sorrento anche il procuratore capo di Napoli Agostino Cordova. È in compagnia di due sostituti della direzione distrettuale antimafia: Giovanni Russo e Francesco Greco. 
Quando il ministro esce dalla grande sala convegni, per sottoporsi alle domande dei giornalisti, anche il procuratore lo raggiunge. E gli bisbiglia qualche parola: «Non demorda, non si lasci prendere dallo sconforto». Diliberto mostra di gradire l’incoraggiamento: «Non demordo, non si preoccupi». 
Poi, anche il procuratore Cordova accetta di rispondere a qualche domanda dei giornalisti. È il giorno dopo la sentenza di Palermo. E i commenti su quella decisione sono all’ordine del giorno. L’assoluzione di Andreotti? 
Il procuratore è cauto: «Non posso esprimermi sulla sentenza per due motivi. Non conosco gli atti processuali e, contrariamente a talune costumanze in uso nel territorio in cui opero, non ritengo corretto prendere posizione su un provvedimento giurisdizionale». 
Ed è così liquidato il capitolo Palermo. Ma il tema d’attualità sono certamente i collaboratori di giustizia nelle delicate inchieste di mafia e camorra. La gestione dei pentiti, le loro dichiarazioni. 
Su questo, Cordova chiarisce subito il suo pensiero: «Bisogna mantenere un certo equilibrio sui pentiti. Sono stati preziosi per lo sconvolgimento dell’assetto mafioso e camorristico, su cui riferivano fatti dall’interno che conoscevano molto bene». Fin qui il giudizio. Ma poi, gli avvertimenti sulla corretta gestione di questi fondamentali strumenti investigativi: «Certo, i collaboratori di giustizia vanno attentamente valutati e vagliati». 
Il disorso ricade, naturalmente, sulla possibile riforma della legge sui pentiti. Dice il procuratore capo di Napoli: «Dal punto di vista normativo c’è poco da rivedere. È emerso che sono fonti preziose di prova. Ma occorre vagliare le loro dichiarazioni in maniera rigorosa. Anche perchè i pentiti non sono tali perchè folgorati sulla via di Damasco. Hanno il loro tornaconto». 
Suggerimenti, su possibili interventi per una più corretta utilizzazione dei collaboratori di giustizia? Una sua ricetta Cordova ce l’ha. Una ricetta, che aveva già suggerito. E il procuratore lo ricorda: «Avevo detto già cinque anni fa che occorre che dicano tutto e subito». 
Ci sono stati abusi nella gestione di qualche pentito? Ecco ancora Cordova: «Abuso è un termine un po’ pesante. Certo, bisogna sanzionare adeguatamente quei pentiti che non dicono il vero o quelli che non dicono tutto ciò che sanno. Altro discorso, naturalmente, è quello di eventuali calunnie».