Processo sempre più ingiusto

da Il Sole 24 ore del 25.10.99

Elaborato illuministicamente in vitro, senza alcuna sperimentazione o adeguata preparazione, e di fronte a una realtà di professionisti del processo (magistrati e avvocati) ideologicamente ancorati a paradigmi di risalente tradizione continentale, fece ingresso nel nostro ordinamento, dieci anni or sono, un codice di procedura penale sommariamente adattato agli schemi del modello adversary, ma inserito a forza in un quadro ordinamentale e in una cultura processuale rimasti sostanzialmente immutati.

Come è noto, la funzionalità del sistema anglosassone si fonda su quattro pilastri: la discrezionalità dell’azione penale, l’ampio ricorso al patteggiamento (plea bargaining) e in genere alle procedure semplificate, il dibattimento con giuria, un sistema di impugnazione molto restrittivo. Nessuna di queste condizioni è stata realizzata nel nostro ordinamento.

In nessun Paese dell’Europa occidentale è presente un sistema che preveda, a un tempo, un così inflessibile principio di obbligatorietà dell’azione penale, un dibattimento così complesso, un così defatigante intrico di procedure incidentali (si pensi solo a quelle in tema di libertà personale, vero «processo nel processo»), un momento motivazionale così elaborato e un sistema di impugnazioni così articolato e pervasivo.

L’attuale situazione, visibile agli occhi di tutti, è quella di un processo garantista per i soli imputati ricchi, un processo che, non solo alle vittime del reato, ma anche a tutti i consociati, appare incomprensibile e interminabile, e che non è in grado di soddisfare decentemente le esigenze di difesa degli imputati deboli, quelli cioè che non sono in grado per condizioni economiche di affidarsi a «bravi» avvocati.

La situazione fallimentare in cui ci troviamo era stata d’altro canto paventata dallo stesso legislatore: «il nuovo processo funzionerà se riusciremo a far pervenire al dibattimento solo una parte piccola di processi», così si leggeva nella relazione al progetto preliminare. Quanto al sistema delle impugnazioni, era stato esplicitamente manifestato il «disappunto» per il fatto che la legge delega non presentava al riguardo innovazioni radicali, in particolare con riferimento al «generale criterio dell’applicabilità delle decisioni». Il tutto, dunque, in un contesto più consono a un giocatore d’azzardo che a un accorto riformatore.

Le prospettive di introduzione di nuove regole costituzionali sul «giusto processo» non sembrano far prefigurare il superamento di alcuna di queste strettoie: è giusto il processo idoneo ad assicurare effettivamente la difesa di tutti gli imputati, a prescindere dalle loro condizioni di reddito, e che, a un tempo, pervenga celermente a una conclusione, stabilendo chi è il colpevole e chi è innocente. La durata ragionevole dei processi, pur proclamata nell’ipertrofico testo di riforma dell’articolo 11 della Costituzione, appare difficilmente conseguibile, se non si interviene sul sistema delle impugnazioni e, soprattutto, se si pretende di risolvere ogni causa secondo le interminabili cadenze di un dibattimento in cui l’oralità, da metodo più appagante per la ricerca della verità, finirebbe, ancor più di adesso, per divenire un vuoto feticcio.

Il fallimento del processo penale è il fallimento della cultura giuridica italiana che lo ha ideato. Nessuno potrebbe azzardarsi a dire che il modello originario del codice, ove non alterato dalle varie novelle legislative e dalle tanto deprecate denunce della Corte costituzionale succedutesi in questi dieci anni, avrebbe evitato un simile disastro.

Giovanni Conti