I processi al potere

da Il Corriere della sera del 25.10.99

Non mi sembra che, nei commenti del giorno dopo l'assoluzione di Andreotti, qualcuno si sia ricordato delle parole più lucide che vennero pronunciate quando Andreotti fu rinviato a giudizio per collusioni mafiose. Quelle parole, che mi parvero allora, e a maggior ragione oggi, ineccepibili, le pronunciò Emanuele Macaluso, un politico capace di andare controcorrente. Macaluso disse allora che imbastire un simile processo era un gravissimo errore perché il suo esito avrebbe, comunque, danneggiato il Paese. In caso di condanna dell'uomo politico più rappresentativo della Prima Repubblica, lo volessimo o no, avremmo proclamato di fronte al mondo e alle nuove generazioni che la Repubblica era stata dominata da mafiosi e da amici dei mafiosi e che, di fatto, la maggioranza di noi italiani ne era stata complice. In caso di assoluzione, ne sarebbe conseguita una sorta di santificazione di Andreotti, nonché di sbrigativa e definitiva assoluzione politica dell'operato della Dc nella Sicilia del dopoguerra. 
Ho ripensato alle parole di Macaluso leggendo i primi commenti, e le prime feroci polemiche seguite alla conclusione del processo. Pur sapendo per esperienza che tentare di ragionare pacatamente in momenti come questo non rende immuni dalle aggressioni, ci provo ugualmente. La domanda da cui partire è la seguente: perché venne imbastito quel processo? Si badi che non sto cercando di dare giudizi sulla buona fede o la competenza professionale dei pm palermitani. Né mi interessa particolarmente il filo rosso che lega fra loro le celebri conclusioni della Commissione parlamentare antimafia presieduta, all'epoca, da Luciano Violante, l'arrivo di Caselli a Palermo, e l'inizio di una attività, assai diversa rispetto a quella che era stata propria di Falcone e di Borsellino, della Procura di Palermo: la caccia al cosìddetto «terzo livello». Sono già in troppi in queste ore impegnati a metter su crocifissioni e roghi, e tirar calci agli sconfitti mi è sempre parsa (per ragioni estetiche più che morali) una brutta cosa. 
Il problema, in realtà, è riconoscere che il processo Andreotti fu preparato da una trasformazione culturale, da un cambiamento, maturato nel corso degli anni, del modo di guardare alla realtà e di pensarla. Una trasformazione che non riguardò la sola procura di Palermo ma un intero Paese. A un certo punto della storia d'Italia si affermò, per un complesso di cause che non possono qui essere ricostruite, un'idea completamente sbagliata del ruolo e delle funzioni del diritto penale. Si pensò che il diritto penale - il comunissimo diritto penale, quello mediante il quale le società cercano di tutelarsi contro la devianza molesta - potesse diventare uno strumento idoneo per processare la Storia, la Politica, il Potere. Se ancora per Pasolini il «Processo al Palazzo» doveva essere politico e simbolico, col tempo si arrivò a pensare: ma perché, invece, non fare veri processi penali? 
Si noti che questo modo di pensare al diritto penale, come strumento di risoluzione di problemi politici, si affermò in ampi settori del Paese già prima che Mani pulite, le inchieste milanesi sulla corruzione, lo trasformassero in senso comune. Si pensi al caso di Gladio, l'organizzazione Stay Behind presente in tutti i Paesi Nato. Ebbene, solo da noi si pensò fosse cosa naturalissima ciò che invece era un'idea insensata: che fosse legittimo imbastire azioni giudiziarie «ordinarie», per presunte violazioni della Costituzione, su un problema che riguardava la sicurezza nazionale e su cui il giudizio doveva, evidentissimamente, spettare alla politica e alla pubblica opinione, non, di sicuro, al giudice penale. 
Con Mani pulite, poi, l'idea che del diritto penale si potesse fare lo strumento di risoluzione dei problemi collettivi divenne dominante. Di Mani pulite si può dire che il grandissimo bene rappresentato dalle prime inchieste sulla corruzione fu, purtroppo, compensato dal grandissimo male rappresentato dalle sbagliate conclusioni che ne trasse il Paese. 
Poiché in Italia le due fazioni, sempre alleate, di quelli che non capiscono e di quelli che fanno finta di non capire, formano, insieme, un consistente esercito, mi aspetto ora che mi venga attribuita la tesi secondo cui è giusto che i «potenti», qualunque cosa facciano, siano intoccabili. Ma non è così. La mia tesi, invece, è che il diritto penale ha compiti circoscritti e fallisce miseramente se si pretende di farne altro da ciò che esso è: uno strumento, altamente imperfetto e di limitate capacità e possibilità, per colpire reati specifici in presenza di prove sufficienti. Quando lo strumento viene forzato per ottenere da esso ciò che esso non è abilitato a dare, produce solo danni. E' insensato pensare di fare processi alla Politica, così come sarebbe insensato farne, che so?, all'economia o alla cultura, o a qualsiasi altra sfera dell'agire umano. Così come, ad esempio, solo l'economia, attraverso il mercato, può correggere se stessa, ugualmente solo la politica può, talvolta, correggere la politica. Solo la politica, nel caso specifico, potrà, forse, col tempo correggere quel rapporto malato fra istituzioni, società meridionale e organizzazioni criminali che, come ricordava ieri Montanelli, è stato una costante della storia unitaria. 
Già, ma c'è stato il Watergate, qualcuno dirà. Appunto. Il Watergate fu il contrario, l'esatto contrario, del processo Andreotti. Ci fu una indagine su un reato specifico, l'effrazione nella sede del comitato elettorale del Partito democratico. Nixon non venne accusato, come certamente sarebbe successo in un Paese penalmente disinvolto come il nostro, di essere il «mandante» dell'effrazione (sulla base dell'aberrante principio secondo cui «non poteva non sapere»). Venne accusato, invece, di avere mentito e di essersi dato da fare per occultare elementi utili alle indagini (peraltro, ce n'erano le prove, le quali non consistevano in dichiarazioni coincidenti di pentiti). Reati precisi, puntuali, circoscritti, specifici. Niente a che vedere con «associazionismi», «collusioni», «concorsi» esterni o interni, ed altre simili vaghezze. Quelle vaghezze, appunto, su cui nei Paesi che hanno perso il senso delle proporzioni, delle funzioni, e dei limiti del diritto penale si costruiscono i Processi al Potere. 
Ma poiché un'idea, quando diviene senso comune, è difficilissima da scalzare, sentite un po' come ha formulato una domanda (il linguaggio è sempre rivelatore di retrostanti ideologie) un giornalista che ha testé intervistato il procuratore capo di Palermo Pietro Grasso: «Dopo questa sentenza ritiene ancora che lo Stato possa processare il potere?». 
di ANGELO PANEBIANCO