La lezione che le polemiche nascondono
da Il Messaggero del 25.10.99
di ROBERTO MARTINELLI
LA SENTENZA del Tribunale di Palermo che ha assolto Giulio Andreotti
dall’accusa di mafia ha scatenato, come era prevedibile, un diluvio di
reazioni e di commenti e ha dato vita alla più violenta polemica
mai registrata sul potere giudiziario. Politici e giuristi, magistrati
e commentatori, storici e uomini delle istituzioni si sono lasciati prendere
dall’onda anomala provocata da questo scossone per difendere le proprie
idee, per ribadire le proprie posizioni di partito, per indicare le soluzioni
più idonee. E per dimostrare di essere ciascuno il depositario della
verità e del rimedio più opportuno. Nessuno, in questo infernale
circo della vanità, si è chiesto però come avrebbe
reagito l’uomo della strada di fronte ad attacchi tanto violenti quanto
generalizzati contro la magistratura.
Intanto nessuno ha detto cose originali o diverse da quelle che aveva
sempre affermato in passato. La lezione di questo processo è servita
solo ad esasperare i toni della invettiva. Da una parte dello schieramento
politico l’attacco è stato sferrato contro i bersagli di sempre:
lo strapotere della pubblica accusa, l’uso disinvolto dei pentiti, la strumentalizzazione
dell’azione penale per il conseguimento di fini politici. Dall’altro sono
arrivate puntuali, le difese d’ufficio dei collaboranti e delle Procure
di frontiera. Ad esse seguiranno, come avviene quasi sempre, i lamenti
di chi sosterrà che la delegittimazione della magistratura farà
rialzare la testa a mafia e criminalità. Delineato il copione che
sta facendo da scenario alla sentenza Andreotti, sarebbe stato forse opportuno
preoccuparsi della ricaduta che avrebbe avuto sull’opinione pubblica. Il
bombardamento incrociato alla quale essa è stata sottoposta rischia
di avere un esito nefasto: quello di far crollare la fiducia del cittadino
nella giustizia, la prima delle istituzioni nella quale egli dovrebbe credere
senza riserve. Il giudice, civile o penale, è il garante della sua
libertà, dei suoi diritti, dei suoi interessi che la legge tutela
in astratto e che solo chi indossa la toga applica al caso concreto. Il
tardivo riconoscimento dell’innocenza di Andreotti (o come preferiscono
i colpevolisti ad oltranza, la sua estraneità ai fatti di mafia)
ha dimostrato che i meccanismi giudiziari possono stritolare chiunque e,
se questo chiunque non ha i mezzi e gli strumenti per difendersi, resta
schiacciato.
Questo e soltanto questo era il vero nodo del problema, ma nessuno
lo ha toccato. Ne sono stati evidenziati altri non meno significativi,
ma secondari rispetto a quello centrale. In primo luogo, il processo ha
messo in luce in maniera spettacolare lunghezza e lentezza delle nostre
procedure. Dall’inizio delle indagini (fine del 1992 e non primavera del
1993) sono passati sette anni. Se la pubblica accusa deciderà di
ricorrere in appello e se per avventura il "caso Andreotti“ finirà
in Cassazione, la parola fine non potrà essere scritta prima del
2010. Il che è indegno di un paese civile. In secondo luogo lo strapotere
della pubblica accusa: è una realtà ammessa ormai anche da
chi sosteneva il contrario tanto che in parlamento una nuova legge propone
(con qualche resistenza) di riconoscere al giudice il diritto di interferire
nella conduzione delle indagini. Nel caso Andreotti l’egemonia del pm ha
avuto addirittura una raffigurazione solenne nello schieramento in aula
di ben tre pubblici ministeri ai quali si sono poi affiancati i capi della
Procura e della Procura generale.
Dalla controparte è stato invocato, a discolpa della sconfitta
subita, il principio costituzionale che fa obbligo al pubblico ministero
di esercitare l’azione penale di fronte ad una qualsiasi ipotesi di reato.
Ciò per dire che questo processo non poteva esser evitato. E’ un
alibi che non regge perché esercitare l’azione penale non vuol dire
accanirsi su una tesi accusatoria e non avere il coraggio di tirarsi indietro
di fronte all’evidenza dei fatti. E non bisogna dimenticare che il codice
fa obbligo al pm di cercare anche le prove dell’innocenza dell’indagato.
Nella realtà di tutti i giorni l’obbligatorietà dell’azione
penale è un sofisma perché il pubblico ministero ha un ampio
potere discrezionale nella scelta degli elementi di accusa. Su di essa
non esiste alcun controllo da parte del giudice terzo per il semplice fatto
che, durante la fase investigativa, il pm scopre solo le carte che fanno
il gioco dell’accusa. Se passerà la nuova legge, le cose cambieranno
perché il giudice avrà la possibilità di un reale
controllo della situazione processuale dell’indagato.
Infine il problema dei pentiti: il dibattito su come usarli si trascina
stancamente in parlamento ma la riforma, semmai verrà, potrà
cambiare i metodi di gestione ma non il costume e la mentalità di
chi usa collaboranti non come semplici spunti investigativi ma come veri
e propri testimoni della corona. Un magistrato che fu il braccio destro
di Giovanni Falcone ed oggi deputato europeo ha detto che quando si è
scoperto che Balduccio Di Maggio «mentre accusava Andreotti, riorganizzava
la cosca e continuava ad uccidere, bisognava gettare la spugna e capire
che il processo era finito davvero».
Parole che pesano come macigni e pensieri che nessuno ha avuto il modo
di esprimere in modo così autorevole. Ora che il bubbone è
esploso con tanta violenza, queste considerazoni cominciano a frullare
nella testa della gente comune che si chiede come tutto questo possa avvenire.
Ecco perché le invettive, le polemiche, le contrapposizioni ideologiche
e i distinguo servono solo ad alzare polvere e non a restituire la fiducia
del cittadino nell’ordine giudiziario. Da domani, forse, sarebbe meglio
cambiare registro e accettare questa sentenza come lezione di vita. Per
tutti, anche per quei magistrati che ogni volta che si mette in discussione
il loro operato protestano e urlano che c’è qualcuno che minaccia
la loro autonomia e indipendenza dal potere politico.
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