«Azione
civile» per l’ambiente
da Il Mattino del 26.4.99
Gino Dato
Potrebbe accadere. Ma è già accaduto. Immaginate che
in una tranquilla città del Massachusetts, lavoro e benessere, dai
rubinetti prenda a colare acqua rugginosa e maleodorante. E che alcuni
bambini cadano man mano vittime di difficoltà motorie, febbri, dimagrimenti,
fino alla morte. Diagnosi: leucemia. Immaginate una madre disperata, un
parroco inferocito e un giornalista, i quali muovendo insieme da un’intuizione,
giungano al ragionevole sospetto, se non alle prove fondate: l’endemia
è causata dall’inquinamento dell’acqua potabile con agenti cancerogeni,
che hanno contaminato le falde acquifere: arsenico piombo, cromo, primi
fra tutti Tricloroetilene (Tce) e Tetracloroetilene (Perc). Sono solventi
industriali che causano danni al sistema nervoso centrale. Dall’inappetenza
allo stordimento alla perdita della coordinazione motoria alle mutazioni
cellulari. La responsabilità? Ricade su due multinazionali che per
molti anni hanno impestato aria, terra, acque, scaricando i liquidi di
lavorazione dei due solventi nei canali di scolo, o seppellendo i bidoni
di scorie.
Potrebbe accadere. Ma è già accaduto. Immaginate che
sulla scena spunti un giovane bostoniano. È di modeste origini ma
dimostra talento per la dialettica. Nella tradizione americana la professione
di avvocato non appare più gratificante di quella dell’idraulico.
Anzi, i maldestri avvoltoi servono solo a spolpare la povera gente. Senonché
assai spesso gioca l’eterogenesi dei fini. E il giovane avvocato, che guida
Porsche, ama bei vestiti, scarpe Bally e cravatte Hermès, viene
folgorato dal valore insieme strumentale e terapeutico della legge: «forse
la vocazione più alta a cui un uomo potesse aspirare». E prende
a cuore la vicenda intentando contro le multinazionali un’azione legale,
che è soprattutto una massiccia campagna in cui non bada a spese
per svolgere inchieste, acquisire prove, referti, pareri che in ogni campo,
dall’idrogeologia alla ematologia, inchiodino i colossi alle loro responsabilità.
Potrebbe accadere. Ma è già accaduto. Immaginate che,
in quest’azione civile, lo strapotere delle multinazioni, l’abilità
di agguerriti studi legali, lo scetticismo dei benpensanti, il furore di
un giudice complottino insieme per spuntare le armi del nuovo Padre Pellegrino.
Il procedimento metterà a rumore l’opinione pubblica, una delle
due multinazionali sarà costretta a risarcire 8 milioni di dollari,
entrambe saranno poi chiamate a versarne altre centinaia per il risanamento
delle falde acquifere. Ma il giovane avvocato, pressato dai creditori per
i 2.600 milioni di dollari spesi alla ricerca di prove, finirà sommerso
dai debiti.
È uno scenario, quello descritto, che si dipana nel più
puro stile americano dei legal thriller. Se non fosse che quella di Jan
Schlichtmann, avvocato di Boston, e dei cittadini di Woburn (Massachusetts),
è una storia vera, svoltasi già negli anni 1970-90. È
la lotta che ingaggiano contro la W. R. Grace, multinazionale del settore
chimico, e la Beatrice Foods, produttrice dalle valigie ai succhi d’arancia.
Il giovane avvocato, dopo qualche anno trascorso alle Hawaii, è
tornato a Boston, ha preso moglie, ha due figli, continua a sposare le
cause di difesa e conservazione dell’ambiente. «Voleva diventare
ricco e famoso, ma allo stesso tempo fare una buona azione. È diventato
un po’ più famoso. Ma non è diventato ricco», commenta
Jonathan Harr, il giornalista americano che ha raccontato il caso Woburn
in «Azione civile», una ricostruzione accurata condotta sulla
base delle interviste ai protagonisti e dei documenti ufficiali.
Sul caso Woburn è da poco uscito un film interpretato da John
Travolta, l’attore che sembra meglio impersonare la complessa figura dell’avvocato,
a mezzo tra l’arrampicatore e il Padre Pellegrino. Ce ne parla Jonathan
Harr, collaboratore del «New Yorker» e del «New York
Times Magazine», il cui volume, tradotto in Italia da Rizzoli, è
stato in vetta alle classifiche americane e ha vinto nel 1995 il National
Book Critics Circle Award.
Perché ha voluto raccontare proprio questa storia vera?
«In primo luogo, l’ho trovata una storia vissuta da personaggi
tutti interessanti. Mi attira la psicologia umana, e i protagonisti della
vicenda apparivano caratteri di rilievo. Poi, era interessante l’argomento
in sé. E gli avvocati mi hanno consentito l’accesso a tutta la documentazione
così come alle loro conversazioni e riunioni, sì da farmi
sentire veramente parte del gruppo. Ancora, ritengo che fosse importante
la posta in gioco: per la gente, per la città, per la società
nel suo insieme».
Ha avuto modo di commentare la vicenda con il protagonista, dopo molto
tempo?
«Gli parlo una volta la settimana, passiamo se possibile anche
del tempo insieme. Siamo molto vicini, abituati a scambiarci le nostre
impressioni. Durante questi anni siamo diventati amici. Anche a prescindere
dai risvolti professionali, quest’opera fa luce su una storia incredibile,
che lui ha sempre voluto denunciare. È contento, ancora, che se
ne sia fatto un film, e della scelta del protagonista in John Travolta».
Libri come questo contribuiscono a incrinare lo strapotere delle multinazionali,
a diffondere il senso della tutela dell’ambiente?
«È esattamente il compito del lavoro dei giornalisti.
Esistono per illuminare, raccontare, esporre. Quando parlo del sistema
giudiziario americano, ne parlo in termini negativi, ma questo non significa
che debba essere considerato tale nella sua totalità. Il mio libro
illumina una certa situazione, il caso Woburn. Grande virtù civile
è quella di un paese in cui si possano fare inchieste che, illuminando
certe situazioni, consentano di percepirla e contenerne i danni di chi
vuole altrimenti».
Qual è l’opinione che ha del giornalismo americano e europeo
nei rapporti con il potere politico ed economico?
«Ogni giornalista, se viene messo nelle condizioni di potere
attingere i dati, può fare un buon lavoro in ogni situazione e ambiente.
Guardi il Watergate: due cronisti che erano nessuno hanno buttato giù
un presidente, con quello che ne è seguito. È questo l’aspetto
sociale più valido del lavoro del giornalista».
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