La violenza contro i giudici 

da La Repubblica del 26.7.99

di GIAN CARLO CASELLI 
"SEMPRE, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria". La frase, notissima, è di Piero Calamandrei, ed era riferita a un giudice - Aurelio Sansoni - che qualcuno, nei primi tempi del fascismo, chiamava "rosso": mentre "era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per far la volontà degli squadristi che invadevano le aule".
Chissà che cosa scriverebbe oggi, il grande Calamandrei? Perché anche oggi i magistrati che, facendo il loro dovere, incrociano interessi forti (e magari rischiano la pelle, nell'interesse di tutti) sono spesso accusati da alcuni di persecuzione e accanimento contro alcuni soggetti per favorirne altri. Certo non siamo allo squadrismo becero del ventennio. Ma forse soltanto perché l'olio di ricino, invece di essere somministrato col bottiglione, viene somministrato col tubo catodico o con altri mezzi della moderna comunicazione. Quanto a violenza, però, non c'è male neppure oggi. Perché le aule di giustizia (e le teste dei cittadini) sono invase, ormai da tempo, da una campagna sui temi della giustizia condotta con toni perentoriamente affilati e feroci, una campagna studiata apposta per far credere (ripetendo ossessivamente verità false o parziali e slogan) che i magistrati italiani - pm in testa - sono colpevoli di tutte le nefandezze del nostro Paese. 

IL RISULTATO, ormai sempre più vicino, è che i magistrati - a forza di essere malmenati - finiscono per trovarsi isolati: quasi fossero, in un corpo altrimenti sanissimo, carne infetta da estirpare.
E negare che questa sia violenza è davvero difficile, posto anche che, per rendere la campagna contro i magistrati più efficace, non si bada certo a spese, essendovi impegnati televisioni, quotidiani, settimanali e case editrici che insieme costituiscono un vero e proprio esercito. Un esercito legato a interessi assai concreti, così concreti che non ci sono limiti di pudore che possano resistere. Tant'è vero che i tantissimi magistrati che hanno il torto di ostinarsi a considerare la giustizia come una merce non in vendita e neppure da gestire in maniera "popolare", corrispondente cioè alle pressioni di certi mezzi di comunicazione, sanno che tra i rischi professionali ormai c'è anche quello di essere volgarmente insultati come assassini, mafiosi, terroristi, pazzi e truffatori. Magari da parlamentari sicuri o quasi di poter contare su un'immunità di fatto sconfinata; se è vero - com'è vero - che è stata negata l'autorizzazione a procedere nei confronti di un deputato di questa nostra Repubblica che aveva invitato i suoi fans - durante un comizio - a scandire in coro l'invito a un magistrato calabrese di andare a fare in c... (avendo la competente Commissione per le autorizzazioni ritenuto tale invito, da quei fans subito accolto, mero prolungamento dell'attività parlamentare...).
Dunque che cosa scriverebbe oggi Calamandrei? Impossibile saperlo. Irrispettoso e presentuoso provare a immaginarlo. Tuttavia si può osare qualcosa. Per esempio riflettendo sul pericolo che si profila oggi per il libero esercizio della funzione giudiziaria, in tutte le sue articolazioni. Perché le molestie e le aggressioni sono rivolte, prima di tutto, contro i pm. Ma in realtà l'attacco punta anche alla magistratura giudicante. E in futuro forse ci vorrà più coraggio del solito (oltre alle prove...), quando si sappia di rischiare il linciaggio - e quale linciaggio! - tutte le volte che capiti di non poter dare ragione alla difesa di certi imputati eccellenti. Più in generale, c'è il rischio che possa affermarsi - anche inconsapevolmente - una filosofia del tipo "ma chi me lo fa fare?", filosofia micidiale per una magistratura che voglia interpretare il suo ruolo avendo come obiettivo una giustizia giusta, uguale per tutti.
In altre parole, l'indipendenza della magistratura potrebbe essere indebolita - in futuro - da un cancro maligno, da manifestazioni di inciviltà capaci di alterare gli equilibri della giurisdizione e di avvelenare il rapporto cittadino-istituzioni. Con grave nocumento, in ultima analisi, per le libertà e la democrazia.
Certo, la magistratura non è tutta buona, né sempre "illibata". E la critica sul concreto esercizio della funzione giudiziaria costituisce un caposaldo della democrazia. Ma la critica (dovrebbe essere ovvio, e invece sembra non esserlo più) è cosa ben diversa dalla denigrazione organizzata, sistematicamente sviluppata con sterminio di logica e verità. Etichettare come nemici i magistrati che fanno il loro dovere, anche quando risulta "scomodo" per certi signori, significa non criticare, ma operare secondo logiche proprie di regimi illiberali. E non si capiscono l'indifferenza e il silenzio - di fronte a questa inquietante situazione - di quanti dovrebbero avere a cuore le sorti della libertà e della democrazia. Tacere può essere suicida, oltre che vile. In ogni caso, se a rischio è la democrazia, tacere è antidemocratico, oltre che incomprensibile. Si sa che certa politica e certa cultura vivono perennemente nell'incubo di non essere abbastanza all'avanguardia: ma se questo significa rincorrere gli isterismi ben orchestrati di chi parla di garanzie per conseguire privilegi, il risultato sarà di contribuire indirettamente a una mutazione genetica - in senso pesantemente riduttivo - della nostra democrazia.
Nessuno può sapere che cosa scriverebbe oggi Calamandrei. Ma tutti dovrebbero ricordare quello che egli scrisse a proposito di un miliardario che non riusciva a far assolvere il proprio figlio (reo di aver sfracellato un povero passante contro un muro, guidando a velocità pazzesca la sua macchina da corsa). Il miliardario, all'avvocato che non sapeva come spiegargli che i giudici sono persone perbene, disse sdegnato: "Ho capito... abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista". È troppo chiedere che ancora oggi si tenga conto di questo ammonimento di Calamandrei? Altrimenti c'è il rischio che il dibattito sui temi della giustizia si trasformi in resa incondizionata alle ragioni del più forte. Che non necessariamente sono quelle della giustizia.