Diritto e interessi
da Il Corriere della sera del 26.11.99
La notizia che la corte di Cassazione turca ha confermato la condanna
a morte di Ocalan è di quelle destinate a creare imbarazzo nel campo
cosiddetto liberaldemocratico. Come si comporterà l'Unione Europea,
che nel vertice di Helsinki dell'11 e 12 dicembre dovrà pronunciarsi
sulla domanda di adesione della Turchia, dopo averla respinta, in passato,
già due volte proprio per la scarsa attenzione prestata dal governo
di Ankara ai diritti umani?
La domanda solleva una serie di problemi complessi, sia di carattere
giuridico, sia di carattere politico. Essa mette, infatti, a confronto
due concezioni opposte dell'ordine internazionale presenti anche all'interno
dello stesso fronte occidentale: quella fondata sul principio di legalità
dell'Ue, e quella attenta alle esigenze di stabilità e di sicurezza
della Nato.
Sotto il profilo giuridico, sia la dottrina sia la prassi internazionali
hanno tradizionalmente correlato il concetto di giustizia a quello di sovranità
nazionale.
E il concetto di sovranità nazionale è incarnato nel
principio del «monopolio della violenza» da parte dello Stato,
cioè nella sua capacità sanzionatoria rispetto ai comportamenti,
da esso e solo da esso, ritenuti devianti. Più che della giustizia
e del diritto, la politica internazionale è stata costantemente
l'arena dei rapporti di forza e il regno degli interessi.
Al modello tradizionale di giustizia correlato al concetto di sovranità
nazionale se ne è aggiunto e sovrapposto, nel frattempo, uno nuovo,
incarnato nel diritto di ingerenza della comunità internazionale
negli affari interni dei singoli Stati per ragioni umanitarie. Tale modello
finisce, però, col contraddire quello precedente e col far rientrare
dalla finestra la politica, cioè i rapporti di forza e gli interessi,
uscita dalla porta in nome di una concezione universalistica della giustizia.
È quel che si dice il ruolo politico del diritto internazionale.
Dopo la crisi del comunismo e la dissoluzione dell'Urss, il campo cosiddetto
liberaldemocratico è diventato, infatti, il solo interprete dell'idea
di giustizia. Ma nel momento stesso in cui se ne è assunto il monopolio
anche per quanto riguarda la sua applicazione ha finito col cadere esso
stesso nella contraddizione fra rispetto del principio di sovranità
nazionale e applicazione del diritto di ingerenza, e, quel che è
peggio, in funzione dei propri interessi politici e strategici.
Così, la Nato è intervenuta in Kosovo, per difendere
gli albanesi dalle offensive dell'esercito serbo, ma si è ben guardata
dal muovere un solo dito di fronte alle offensive non meno cruente dell'esercito
turco contro i curdi. Al movimento di liberazione del Kosovo è stato
addirittura riconosciuto il rango di attore internazionale ai negoziati
parigini, mentre lo stesso trattamento non ha avuto il Pkk, il movimento
curdo capeggiato da Ocalan. In definitiva, per la Turchia, far parte della
Nato, non è stato solo un modo di far fronte, ieri, alle minacce
esterne sovietiche, bensì è anche l'occasione, oggi, per
evitare ingerenze al proprio interno in nome della coesione dell'alleanza.
A questo punto, però, emerge chiarissimamente un'ulteriore contraddizione,
questa volta all'interno dello stesso campo liberaldemocratico. Fra la
politica estera dell'Unione Europea, ispirata al diritto di ingerenza per
ragioni umanitarie, e quella della Nato, preoccupata, sì, in linea
di principio di difendere i diritti civili anche sul piano internazionale,
ma solo in presenza di condizioni politiche «convenienti» per
gli interessi occidentali.
Al vertice di Helsinki, l'Unione Europea non dovrà rispondere,
pertanto, solo alla richiesta di ingresso della Turchia, ma anche e soprattutto
a una domanda ben più complessa: come conciliare la propria politica
estera (Pesc) con quella della Nato. In definitiva, come difendere la propria
autonomia eticopolitica di fronte agli interessi strategici globali degli
Stati Uniti, che della Nato sono il «dominus».
di PIERO OSTELLINO
|