Tangentopoli, voltar pagina senza elusioni 

da Il Sole 24 ore del 26.11.99

di Edmondo Berselli
Le cronache si concentrano sul caso di Bettino Craxi e all’opinione pubblica viene proposta sempre più spesso l’idea di una soluzione politica per tangentopoli. In realtà, l’unica soluzione possibile era che la politica facesse il suo corso: cioè che la sola ghigliottina, in una democrazia liberale, fosse quella di un confronto fra schieramenti basato su una formula elettorale rigorosa. Dopo decenni di paralisi democratica, soltanto il criterio severo ma anche creativo e liberatorio dell’alternanza poteva rilegittimare integralmente la classe politica.

Ciò non è avvenuto, e ne scontiamo le conseguenze. La Seconda Repubblica è rimasta intrecciata con la Prima. Voltare pagina, allora? Certo che occorre voltare pagina. Una società non può vivere sotto l’ipoteca della mancanza di legittimità politica, in un clima di accuse e controaccuse reciproche. Ma, così come era un errore esiziale, dopo il 1992, pensare che il rinnovamento dell’Italia contemporanea potesse avvenire per via giudiziaria, è un errore anche oggi procedere al gioco impressionistico delle riabilitazioni, sull’onda emotiva della cronaca. Si perde di vista infatti il punto centrale di tangentopoli: che non era, o non era soltanto, un insieme di responsabilità individuali, era più propriamente un sistema, o almeno una stratificazione continua.

Per questo, affermando che le responsabilità penali sono personali (come si è ripetuto mille volte), si dice solo mezza verità. Le rade condanne e le frequenti assoluzioni di esponenti di qualche peso della "Repubblica dei partiti" non riescono a mettere a fuoco con esattezza le dimensioni e la portata del sistema della corruzione. Quindi, per collocare in un giudizio storico appropriato la nostra molto imperfetta democrazia non saranno sufficienti i singoli verdetti di tribunale.

La corruzione italiana era una malattia che aveva invaso il Paese, e che richiedeva prezzi via via crescenti, scaricati progressivamente sulle spalle di tutta la collettività. Non si può dimenticare che ampi settori del mercato si erano trasformati in un oligopolio collusivo, in cui la spesa pubblica si dilatava in ragione diretta all’intreccio fra politica e affari. Nessuno può quantificare con esattezza quanto è costata questa distorsione dei meccanismi di mercato. E neppure quale è stato il costo strutturale comportato dall’assenza di una concorrenza decente, le ripercussioni in termini di inefficienza, il gravame insopportabile costituito da realizzazioni protratte oltre ogni limite di ragionevolezza.

In quella simbiosi di rivalità e di regime pattizio, interi contesti di attività sono ricaduti in una logica feudale. Il vassallaggio degli enti pubblici, come l’Iri e l’Eni, non merita neppure una sottolineatura, tanto era conclamato. La lottizzazione della televisione di Stato era divenuta uno schema a suo modo scientifico. L’intero settore bancario è stato il campo di battaglie durissime, con la conseguenza che la gestione imprenditoriale e manageriale degli istituti è stata condizionata da parametri esterni, e che il credito è stato rivolto non tanto a una funzione di crescita economica e di sviluppo, alla valorizzazione delle realtà più innovative e promettenti, bensì al consolidamento e alla stabilizzazione dei circuiti già esistenti.

È una malattia che viene da lontano, naturalmente. Almeno dal momento in cui il tentativo di creare una tecnostruttura moderna, che fu di Enrico Mattei come di Amintore Fanfani, cominciò a cristallizzarsi come occupazione sistematica di posizioni di potere. Un potere che nella fragilità democratica italiana doveva essere contrattato e poi spartito tutto internamente alla politica. E anche un morbo che non inquina esclusivamente la sfera della politica lasciando intatta la società: il riflesso della grande spartizione di vertice infatti è un’intera articolazione del consenso, ricercato e mantenuto attraverso politiche esplicitamente clientelari.

Organizzato attraverso la spesa pubblica, a base di inflazione e di indebitamento pubblico, articolato attraverso ossificazioni corporative e sindacali, il consenso così ottenuto ha significato l’impoverimento del Paese e la sua mancata modernizzazione. Gli equilibri distorsivi nel mercato degli appalti pubblici, dalle grandi opere fino alle forniture più modeste, hanno determinato ulteriori sprechi, oltre che una fisiologia dell’illegalità e una perdita d’interesse degli operatori rispetto alla competitività. Le tangenti non sono state solo finanziamento illecito al sistema politico: sono state una componente essenziale di una razzia incrociata. E le asprezze della politica di riaggiustamento dei conti pubblici, a partire dal 1992, sono state rese più severe anche dalla tassa implicita, da quell’"Iva impropria", che il sistema della corruzione aveva imposto alla società nazionale.

Tutto questo è largamente noto: ma serve per ribadire che non si può ricadere di nuovo nell’illusione giudiziaria. Un riesame dell’attività dei pubblici ministeri, o una commissione parlamentare d’indagine sul finanziamento ai partiti, potranno forse modificare la percezione pubblica di alcuni leader di partito, ma non possono riabilitare un metodo e una struttura comportamentale pubblica.

Non si tratta, si badi bene, di un’ulteriore versione del «così facevan tutti», come se una colpa collettiva potesse riscattare le responsabilità individuali, di gruppo, di corrente. Perché è senz’altro giusto rimettere a fuoco il ruolo delle personalità politiche e dei partiti storici nella vicenda repubblicana: come ha riconosciuto Massimo D’Alema, l’esperienza politica italiana, e in particolare quella dei due partner (Dc e Psi) di trent’anni di governo, non può essere considerata solo malaffare.

Ma se in seguito alle personalizzazioni si perde di vista la gravità della malattia simboleggiata dalla parola tangentopoli, la sua pervasività a ogni livello di governo e di amministrazione, il modo in cui erano proliferati e si erano consolidati i suoi nessi costitutivi, allora la necessità oggettiva di voltare pagina rischia di trasformarsi in un altro atto di elusione. E di tutto ha bisogno, il nostro Paese, fuorché di una nuova opportunità elusiva: cioè dell’idea strisciante che in fondo sia possibile evitare, insieme ai conti con il passato, le responsabilità vincolanti che la politica ha dichiarato di voler assumere nella stagione venuta dopo una crisi quasi fatale.