«Un processo figlio dell'emergenza»

da Il Corriere della sera del 26.10.99

ROMA - «Io escludo che la magistratura possa avere innescato un processo sulla base di suggerimenti. Se fosse così me ne dovrei andare, perché significherebbe che qui ci sto male. L'ipotesi del suggeritore francamente mi sembra fantagiustizia. Se Andreotti dice così vorrà dire che ha qualcosa fra le mani, e se verrà fuori poi ne discuteremo. Ma di queste cose dovreste parlare con Andreotti non con me». 
Giovanni Verde, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, esclude che il processo contro Giulio Andreotti possa avere mischiato lotta politica e azione penale. Esclude che «i magistrati abbiano tracimato dal ruolo che è loro assegnato». Ritiene che «le prove siano state insufficienti», e che però «vi fossero elementi sufficienti per iniziare il procedimento»: «se così i pubblici ministeri non avessero fatto, dato l'obbligo dell'azione penale, sarebbero stati loro da processare». E tuttavia, pur difendendo l'operato dei magistrati, Verde trae dal processo contro il senatore a vita una riflessione critica: «Senza il modello di legislazione d'emergenza che ci siamo dati, e che a me non piace, forse il processo contro Andreotti non si sarebbe celebrato». 
Non tutta la magistratura, alla luce delle critiche di queste ore, sarebbe indipendente a sufficienza dalla politica. 
«Rispondo citando il vostro giornale. Alberoni ha ricordato come tutti nel bisogno chiedono aiuto, poi però, passato il pericolo tutti si dimenticano. La storia della mafia in Sicilia ci consente di toccare con mano questa verità. Se qualche risultato è stato raggiunto nella lotta al crimine organizzato, qualche riconoscenza dobbiamo averla nei confronti di Caselli. Mi sembra che sia troppo presto per rimuovere una dovuta gratitudine. Tanto più che i giudici a Palermo hanno dimostrato di essere completamente indipendenti. Dimenticare i meriti che Caselli ha avuto nella lotta al terrorismo e alla mafia, dimenticare la vita blindata che ha condotto e conduce, non certo per piacere, è opera di rimozione che amareggia». 
Andreotti parla di un «suggeritore» per il suo processo. Non è un complimento alla magistratura. 
«E' un'ipotesi completamente priva di qualsiasi riscontro probatorio. E non aggiungo altro a quanto ho già detto. Ma vorrei ricordare una riflessione che definirei profetica di Emanuele Macaluso: qualunque fosse stato l'esito del processo Andreotti, disse, sarebbe stato comunque un errore. Questa è una valutazione che si può fare in sede politica, ma non in sede giudiziaria, perché le nostre procure non possono fare valutazioni di opportunità. Il nostro sistema si fonda sull'obbligo dell'azione penale. Io non conosco gli atti, ma se stiamo al dispositivo della sentenza mi sembra che i magistrati non abbiano sconfinato dal loro compito». 
Come fa a esserne così sicuro? 
«Perché dal dispositivo si evince che vi erano elementi sufficienti per iniziare il processo. E nel nostro sistema, paradossalmente, se vi sono elementi e i pubblici ministeri non iniziano il processo sono colpevoli di reato. Però bisogna anche aggiungere un'altra riflessione». 
E cioè? 
«Non c'è dubbio che il diritto penale è divenuto strumento di risoluzione di problemi politici. Io penso che nella politica della giustizia si dovrebbe decidere senza lasciarsi sopraffare dal contingente, senza seguire l'impulso delle polemiche. E questa è una delle cause della crisi odierne del settore. In Italia sembra difficile perseguire un obiettivo duraturo. E non ha colpe solo la politica, anche la nostra opinione pubblica è un giorno colpevolista, un altro garantista, un altro autoritaria, a seconda delle situazioni o dei soggetti sotto i riflettori. Quello che dovremmo evitare oggi è proprio questo: agire sotto l'impulso del momento». 
Sotto accusa c'è anche quella giurisprudenza «d'emergenza» che eleva al rango di prova le dichiarazioni incrociate di due o più pentiti. 
«In Italia i problemi della criminalità organizzata hanno consigliato alla politica di inserire nel nostro codice dei reati dai contorni molto labili, che si prestano ad essere applicati in maniera molto estensiva, troppo dilatata. La legislazione d'emergenza è stata una necessità, quasi un male necessario, ma che ha introddotto delle figure di reato che a me non piacciono. Questa legislazione va ripensata, senza eccedere in una drastica riduzione, ma va ripensata». 
Senza questa legislazione si sarebbe potuto processare Andreotti? 
«In assoluto non sono in grado di rispondere ma probabilmente sarebbe stato molto più difficile, questo sicuramente. Anche se non dobbiamo dimenticare che sarebbe stato anche più difficile processare la mafia». 
Ruolo e regole dei pentiti: hanno avuto spazio eccessivo nei processi? 
«Credo che i collaboratori abbiano contribuito a dare risultati utili e continuano ad essere strumenti irrinunciabili. Però sono trascorsi 15 anni da quando abbiamo cominciato ad usarli e da allora molte cose sono cambiate. Oggi forse abbiamo la possibilità di dettare regole migliori. Il patto fra lo Stato e il collaboratore si deve "chiudere" entro un tempo determinato. Che i collaboratori possano continuamente ricontrattare le condizioni offrendo nuove informazioni per ottenere nuovi benefici mi pare fuori dalle regole. La proposta in esame in Parlamento prevede un tempo di sei mesi, cui si collega la possibilità di una deroga. Io preferirei un termine più lungo, ma senza contemplare deroghe. Perché in Italia di solito le deroghe finiscono con il diventare la regola». 
Marco Galluzzo