Violenza sessuale, vent’anni dopo 

da Il Mattino del 27.4.99

È senza fine la storia della legge contro la violenza sessuale. A tre anni dalla sua approvazione, il 14 febbraio ’96, dopo 18 anni di ping pong tra Camera e Senato (dall’VIII alla XII legislatura) adesso - dopo le sentenze della Cassazione sui famosi jeans e sulla donna incinta - c’è chi vuole modificarla e chi addirittura sostituirla. 
È pronto un nuovo disegno di legge, che porta la firma di Maretta Scoca, mastelliana, sottosegretaria alla Giustizia. Si prevedono aggravanti per chi stupra una persona in condizioni di inferiorità, di «debolezza» fisica e psichica (quindi una donna incinta). Diventa reato mostrare o distribuire materiale pornografico a minori. 
A ripercorrerlo oggi, il cammino a ostacoli di quella che è stata chiamata «la legge più difficile» è impressionante. Tutto cominciò durante un’assemblea al Palazzo di via del Governo Vecchio, a Roma, l’ex Pretura diventata la Casa delle Donne. Si parlava dei primi processi per stupro: quello di Latina, quello del Circeo, che avevano visto l’avvocatessa Tina Lagostena Bassi battersi perché le vittime non fossero trasformate in imputate da impudichi giudici ridacchianti (le riprese televisive furono uno choc salutare per la nazione). Per la prima volta le donne pensavano di mettersi insieme per eliminare alcune delle storture dell’ancora vigente Codice Rocco. Come il reato di stupro, considerato tra i delitti «contro la moralità pubblica e il buon costume» e non contro la persona; la distinzione del reato medesimo in due fattispecie separate, «atti di libidine violenta» e «violenza carnale», con la conseguenza di prevedere umilianti «ispezioni corporali» alla vittima. 
Nacque così un Comitato per la raccolta di firme necessarie a proporre una legge di iniziativa popolare. A fine ’79 si contarono 300 mila firme, quando ne sarebbero bastate 50 mila. A questo punto il movimento delle donne cominciò a spaccarsi: una maggioranza voleva la nuova legge, una minoranza rifiutava di «sporcarsi le mani», confrontandosi con la «politica maschile». 
Fu così che il testo elaborato dalle donne non arrivò mai in Parlamento. Dopo alcuni tentativi falliti, un primo testo unificato, messo a punto dalla Commissione Giustizia della Camera (relatrice Angela Bottari, del Pci) nell’80 arrivò in aula, dove cadde tra indecorosi schiamazzi. Lo stesso avvenne nell’84. 
Da una legislatura all’altra, per un decennio il Parlamento continuò a palleggiare tra Camera e Senato articolati, vizi procedurali, mancanza del numero legale, fino al colpo di scena che all’ultimo momento rimetteva immancabilmente tutto in discussione fino alla successiva legislatura. L’impantanamento era tale che nell’81 fu creato un Comitato di garanti della legge (da Fernanda Contri a Livia Pomodoro, da Dacia Maraini a Marisa Belisario, a Camilla Cederna) di cui fui chiamata a far parte. Questo Comitato doveva vigilare perché «anche se ci sarà la crisi di Governo, il dibattito non venga sospeso». 
Passa un anno di trattative, passa un 8 marzo di fuoco. Il 15 marzo ’89, a tarda notte, in un clima surriscaldato, la Camera approva. Le sinistre cantano vittoria. Troppo presto. In Transatlantico la doccia gelata arriva da Mino Martinazzoli (capogruppo dc sconfitto) che la definisce «la vittoria delle mosche sulla carta moschicida». Un mese dopo, a Palazzo Madama, la situazione si è capovolta. Stravince la Democrazia cristiana (pilotata dal capogruppo Nicola Mancino) con la reintroduzione del doppio regime (procedibilità d’ufficio, ma a querela di parte all’interno della coppia) e la cancellazione del principio del libero amore tra minorenni. Due dei punti più controversi della controversa legge. Che torna a Montecitorio, dove rimane insabbiata fino alla fine della legislatura. 
Nella successiva (la XII) vengono presentati altri dodici progetti di legge. Un nuovo testo trasversale e unitario - relatrice Alessandra Mussolini, che si batte come una leonessa - viene votato in aula il 28 settembre ’95. Vincono i sì e si va in Senato, che la rimanda con tre piccole modifiche alla Camera, che la rimanda al Senato, che la rimanda alla Camera, che la rimanda al Senato. Che il 14 febbraio ’96, ratifica l’ultimo emendamento proposto da Montecitorio. Le donne hanno finalmente la legge antistupro, che le riconosce «persone». Ma, come spesso avviene per le cose troppo desiderate e sofferte, molte non la riconoscono più. 
Adesso, dopo le sentenze dell’Alta Corte, «sentenze killer» le chiama la Mussolini, che chiede l’intervento del ministro Diliberto contro la terza sezione («se il ministro pensa che la legge sia sbagliata, abbia il coraggio di modificarla») e quel filo neppure tanto sottile di misoginia che lega episodi diversi, si moltiplicano le voci di chi vuole riscriverla. 
«Tutto questo succede perché è stata fatta troppo in fretta», dice Maretta Scoca. Vent’anni di fretta? Per la vicepresidente del Senato, Ersilia Salvato, ds, da rifare «è soprattutto un certo tipo di cultura». La Salvato non ha mai amato questa legge: la ritiene «troppo generica e i giudici trovano varchi per concedere attenuanti». 
Anna Serafini, ds, relatrice della legge contro lo sfruttamento sessuale dei minori, sta preparando una proposta di legge quadro sui centri antiviolenza. Per lei, ricominciare punto e a capo «è esagerato, sarebbe un errore politico. Potrebbe durare trent’anni». Ha parlato con parlamentari della maggioranza e dell’opposizione trovando consensi.