L'onere
della prova
da Il Messaggero del 27.2.99
di ROBERTO MARTINELLI
RISCHIA di diventare un’altra pagina buia quella scritta negli uffici
della Procura della Repubblica di Cassino sulla morte di Mauro, il ragazzino
ucciso tre mesi fa nel bosco di Piedimonte. A sentire il pubblico ministero
tutto sembrava chiarito e mancava solo la confessione dei colpevoli. E
invece, giorno dopo giorno, le granitiche ipotesi accusatorie si stanno
sciogliendo come neve al sole. Sta accadendo quello che si è verificato
durante le indagini per i sassi assassini lanciati dal cavalcavia di Tortona,
e quanto sta emergendo nel processo per la morte di Marta Russo. Quasi
lo stesso copione dei tanti delitti insoluti delle nostre città.
Queste tre storie di ordinaria giustizia, che rischiano di lasciare
liberi i responsabili di altrettanti omicidi, hanno in comune una caratteristica:
l’accanimento dei pubblici ministeri nella individuazione del colpevole.
Tutti e tre gli episodi avevano creato un forte allarme sociale e suscitato
una reazione violenta dell’opinione pubblica. E i magistrati del pubblico
ministero si erano sentiti in dovere di impegnarsi in prima persona per
dare un volto agli assassini. Nel fare ciò, essi hanno adempiuto
in pieno al dovere giuridico e morale delle loro funzioni.
Le legge consente loro di dirigere e indirizzare le indagini, di guidare
la polizia giudiziaria, di disporre accertamenti mirati, di fare tutto
quanto è umanamente e tecnicamente possibile per portare il colpevole
davanti ai suoi giudici. Il codice, purtroppo, non pone limiti ai poteri
infiniti della pubblica accusa, se non quelli simbolici di chiedere l’avallo
del giudice, quando deve compiere atti che limitano le libertà del
cittadino. E per libertà non si intende solo quella personale, ma
anche quella epistolare, quella telefonica, e quella più generica
del libero godimento dei suoi diritti costituzionali.
Il nuovo processo penale ha riconosciuto poteri così ampi alla
pubblica accusa per assicurare al cittadino garanzie maggiori. L’intento
del legislatore era quello di gettare i semi di quello che ora si vuole
realizzare sotto il nome di ’’giusto processo’’. Porre al vertice della
polizia giudiziaria il procuratore della Repubblica venne giudicato dal
legislatore degli anni Ottanta come il massimo della garanzia che il sistema
giudiziario potesse offrire al cittadino. E così è stato
per tutte quelle Procure che hanno avuto la fortuna di essere governate
da magistrati rispettosi dell’obbligo di ricercare ’’anche’’ gli elementi
di prova a favore dell’indagato. Non è stato così per quelle
Procure nelle quali il Csm ha tollerato che l’azione penale venga esercitata
secondo criteri propri di uno Stato di polizia.
Non solo: sono troppi gli iscritti all’ordine giudiziario che hanno
dimenticato o fingono di aver dimenticato che da sei anni è in vigore
un ’’codice etico’’ dei magistrati italiani. E a chi ha la memoria corta
vale la pena ricordare che esso consta di quattordici articoli, due dei
quali disattesi e violati ogni giorno. Il primo riguarda proprio il comportamento
del Pubblico ministero per il quale viene sancito l’obbligo di ’’comportarsi
con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo’’. Tale imparzialità
non consiste solo nel cercare le prove di innocenza dell’indagato, ma anche
nel non tacere al giudice l’esistenza di fatti o circostanze che possono
portare vantaggio all’imputato. Ed ancora: nel dovere di evitare di esprimere
valutazioni sulle persone delle parti e dei testimoni.
Il secondo articolo riguarda il rapporto con la stampa e con gli altri
mezzi di comunicazione. Dice il codice che il magistrato non sollecita
la pubblicazione di notizie attinenti alla propria attività di ufficio
e comunque evita di utilizzare canali informativi personali riservati o
privilegiati. Basta leggere le cronache giudiziarie degli ultimi anni per
verificare come questi principi siano stati non solo disattesi ma calpestati
senza alcuna remora. Si pensi alle conferenze stampa convocate per annunciare
l’arresto dei colpevoli, o le dichiarazioni trionfalistiche di pubblici
ministeri che di fronte all’evidenza dei fatti continuano a sostenere che
il loro imputato è colpevole.
Tutto sommato l’inchiesta di Cassino, a differenza di tante altre,
i cui errori sono stati scoperti troppo tardi, potrà forse essere
rimessa sulla strada giusta. Ciò grazie a un giudice che non si
è appiattito sulle posizioni del pubblico ministero e ha ordinato
nuove indagini. Il problema è che sarà lo stesso Pm ad indagare
e sarà sempre lui a decidere in quale direzione.
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