Perché non li prendono mai ?

da Il Corriere della sera del 27.2.99

E' accaduto ancora una volta a Cassino. Uccidono Mauro Iavarone. Ha soltanto undici anni. L'assassino, gli assassini lo abbandonano tra le sterpaglie con il cranio fracassato. Le immagini e le parole dei media amplificano l'orrore di quella innocente vita spezzata. Nell'opinione pubblica nasce come un cancro e cresce e gonfia l'incubo del «mostro», dei «cannibali». Chi è, chi sono? Qual è il suo, il loro volto? Può essere tra di noi. Anzi, sono accanto a noi. Quell'incubo si corrompe nel sospetto, e nessuno può dirsi salvo. (Ricordate quanto accadde agli sventurati ginecologi nella Firenze del «mostro»?). Il magistrato, il poliziotto, il carabiniere sono travolti da quella densa onda emotiva. Sentono il dovere di ricomporre nel più breve tempo possibile l'ordine sociale che il delitto ha trasformato in inquietudine e disordine. Assaporano con dolcezza il fascino della soluzione del «caso» e (perché no?) i probabili privilegi. La notorietà. Magari una promozione. 
Il magistrato e il poliziotto finiscono per accontentarsi di indizi labili. Sufficienti, comunque, a dare un volto al «colpevole» e una ragione al delitto. E' davvero il colpevole? Nessuno, in quel momento, se lo chiede perché l'arresto è comunque sollievo collettivo. I rachitici indizi appaiono, a tutti, solidi come una statua di Michelangelo. La catastrofe verrà dopo quando, più freddamente, si vaglierà l'istruttoria e gli indizi mostreranno la loro deforme gracilità. Ecco quanto accade nell'Italia nera. Ecco quanto è accaduto a Cassino. 
Erik Schertzberger ha confessato di avere ucciso Mauro Iavarone. Lo hanno visto andar via con Mauro. Ha comprato i bustoni di plastica che serviranno a coprire il cadavere. Ha lasciato sul luogo del delitto una scarpa e impronte dovunque. Ha addirittura disegnato l'arma del delitto. E tuttavia non può bastare perché, fin dall'inizio (anzi, prima che addirittura avesse inizio) l'indagine ha trovato nel nomadismo il suo paradigma più forte. Devono essere lì, tra le roulotte dei rom kalderasha, i complici. Erik capisce e, ingenuo (maligno?), chiede ai magistrati: «Volete una verità eclatante?». Gliela consegna in un garbuglio di 8 (otto) confessioni contraddittorie. Cadono nella rete Daniel e Claudio T. (già liberi) e ancora Fardi e Denis Bogdan. Anche Fardi da ieri è libero. Denis resta in galera con il pensiero cattivo che è dietro le sbarre soltanto per salvare la faccia ai pubblici ministeri e ai carabinieri. 
Un'altra indagine si sgonfia dopo aver aver accartocciato ogni grammatica di giustizia e scompaginato la sintassi di una verità plausibile. Quante volte è accaduto? E' accaduto in via Poma 2, Roma. Simonetta Cesaroni lavora al computer dell'Associazione alberghi della gioventù. E' il 7 agosto del 1990 tra le 17.30 e le 18.30. La uccidono con 29 stilettate. L'assassino pulisce la stanza, lava il corpo della sua vittima, porta via alcuni vestiti di Simonetta. La porta è chiusa. Non ci sono effrazioni. Il palazzo è vuoto. L'assassino deve essere nel palazzo, del palazzo. Incastrano il portiere (Pietrino Vanacore) e un condomino (Federico Valle). Saranno prosciolti. Ancora oggi gli inquirenti di allora sono convinti che erano sulla «pista buona». E si rammaricano: «Se avessimo accusato Vanacore di favoreggiamento... se avessimo indagato sulla clinica dove Valle ha cancellato la ferita al braccio che può essersi procurato quel 7 agosto... se avessimo controllato la compatibilità del sangue ritrovato nell'ufficio con quello di Valle...». Troppo tardi, bellezza. Il tuo furore investigativo ha già devastato il campo per tornare a seminare. Come all'Università della Sapienza dove morì Marta Russo. Gli indizi, raccolti con l'ossessione di circoscrivere all'aula 6 di Filosofia del Diritto la scena del delitto, non hanno tenuto all'esame critico del processo. E' accaduto a Tortona dopo l'assassino lancio di sassi dal cavalcavia della Cavallosa. Il procuratore Cuva si convince che è stato Gianni Mastarone a gettare la pietra che ha ucciso Maria Letizia Berdini il 27 dicembre del 1996. Ne è così convinto da truccare i verbali dei testimoni e Gianni Mastarone deve ringraziare un gatto e una telefonata se va in giro libero. Il gatto della sorella fugge. Un buon uomo lo acchiappa e telefona alla proprietaria. Risponde Mastarone. In quel momento Maria Letizia moriva in autostrada. E se il gatto non fosse stato ritrovato? E se la telefonata fosse giunta due ore più tardi? 
A volte anche un'iniziale confessione, raccolta in fretta o con eccesso inquisitorio, non è convincente agli occhi dei giudici. Christian Waldner, esponente dei Liberalen, fu trovato cadavere il 17 febbraio 1997 nel suo studio a Castel Guncina nei pressi di Bolzano. Interrogano Peter Paul Rainer, ideologo degli Schuetzen, amico-nemico di Waldner e co-fondatore del partito del Freiheitlichen. Confessa l'omicidio. «Fu una trappola», dice oggi Rainer. Che l'interrogatorio non debba essere stato limpido lo dimostra l'assoluzione che Peter Paul Rainer ottiene in appello. 
Che cosa non funziona nel «delitto borghese»? Perché risulta così ostico al lavoro degli investigatori (magistrati e poliziotti)? Un'investigazione che non ha l'immediato esito catartico di un colpevole, non riesce a ricomporre il mondo frantumato dal crimine. Se si guarda l'Italia nera si rintraccia soltanto un disordine permanente. 
E' un disordine (delitto senza colpevole) che ci racconta la crisi di una politica criminale incapace di diventare «scienza degli indizi», di liberarsi di tutto ciò che è troppo umano. Soffocata da uno schema dove il pubblico ministero dirige le indagini manco avesse studiato da poliziotto, e il poliziotto, privo di autonomia e controllo, si burocratizza o s'impigrisce, la ricerca del colpevole in Italia appare regredita a «fiuto». Per dirla in altro modo, sprofonda nei pregiudizi e nelle passioni. Così, di volta in volta, finiscono in galera lo zingaro, lo scemo del villaggio, il dropout, il marocchino, lo squilibrato o il saccente ricercatore universitario che sta sulle balle a tutti. 
Quando poi nell'ambiente della vittima (vedi i «casi» della contessa Alberica Filo Della Torre o del conte Alvise Nicolis di Robilant) non ci sono zingari o scemi del villaggio, manca anche il provvisorio colpevole. 
La conclusione deve essere amara e forse non originale. Anche la politica criminale deve modernizzarsi, deideologizzarsi. Finora è stata soltanto uno strumento della politica perché l'intero apparato repressivo ha dovuto affrontare soprattutto contesti politici. Lo ha fatto con maestrìa tenendo a bada i «nemici» (di sinistra e di destra) o le grandi emergenze nazionali, come il terrorismo e la mafia. Oggi che la politica criminale è chiamata non solo alla difesa dello Stato (e di un regime politico), ma anche a garantire la sicurezza del cittadino, s'impappina, fa cilecca e, quel che è peggio, caccia in galera un innocente e in libertà un assassino. 
Giuseppe D'Avanzo