Se il processo é ingiusto

da Il Corriere della sera del 27.7.99

Di che cosa parliamo quando parliamo di «giusto processo»? Anche il lettore più distratto sa che la formula indica la ricerca legislativa di un maggiore equilibrio, nel processo, tra accusa e difesa dinanzi a un giudice effettivamente «terzo». Sono anni che maggioranza e opposizione affrontano la questione come la questione prima della giustizia italiana. Prima, perché fondativa (nelle intenzioni) di un nuovo rapporto tra cittadino e Stato che finalmente possa cancellare il carattere autoritario del nostro impianto penalistico che considera vulnerato con il delitto non il diritto del cittadino, ma il potere dello Stato. 
A giudicare dai larghi e complici sorrisi del centrodestra e del centrosinistra, il recente compromesso sul «giusto processo» sembra aver centrato il bersaglio. Lo ha centrato poi davvero? Possiamo dunque dire che abbiamo finalmente un giusto processo? Ma poi per chi dev'essere giusto, il processo? Soltanto per l'imputato e per lo Stato o anche per il cittadino (non imputato) che alla macchina repressiva dello Stato chiede soprattutto sicurezza? Non può essere considerato giusto il processo che accerta le responsabilità, condanna e non rende effettiva la pena o, per dirla chiara, lascia in libertà il condannato: con la libertà di delinquere di nuovo. + il frutto marcio di un processo ingiusto che una banda di rapinatori, condannati e in libertà, uccida Ezio Bartocci nella sua gioielleria di viale Padova a Milano. Come non è giusto scoprire che Vincenzo Raiola, agente scelto di polizia, è morto difendendo un portavalori assaltato in armi da gangster che altri poliziotti avevano già arrestato e fatto condannare: gangster che, con un ex terrorista, potevano disporre addirittura di un arsenale di guerra con mitra, tritolo, bazooka, mine antiuomo. 
Qualsiasi processo, anche se equilibrato nel confronto tra pubblico ministero e imputato, non è giusto per il cittadino (non imputato) se, alla fine, nessuno paga il prezzo delle sue responsabilità. E tuttavia, per ricordare le parole di monsignor Erminio De Scalzi, vicario episcopale di Milano e amico di Ezio Bartocci, «non dobbiamo lasciarci vincere dal pessimismo». Bisogna avere il coraggio di non abbandonare la strada di una detenzione più umanitaria. Osservare che larga parte dei 4.736 detenuti agli arresti domiciliari e dei 1.810 in libertà vigilata non delinque, rischia di essere irritante e soprattutto inutile se quelle poche centinaia che continuano a delinquere creano una diffusa insicurezza sociale. + questa percezione di insicurezza che chiede una risposta socialmente efficace, perché può chiudere il passaggio a una più civile e umana detenzione e aprire il varco a una concezione vendicativa della punizione e della sorveglianza. Non può essere però il cittadino a pagare il prezzo del tentativo umanitario, dev'essere il Parlamento a scrivere le regole di questo tentativo e tocca allo Stato garantire le risorse organizzative, umane e professionali necessarie a rendere possibili (e sicure per il cittadino) le soluzioni alternative al carcere. Conviene ripeterlo oggi che la Commissione Giustizia della Camera avvia la discussione sul cosiddetto «pacchetto sicurezza» predisposto dal governo. + un «pacchetto» che imbocca una strada demagogica, emergenziale. 
Il governo sembra credere che aumentando le pene per i reati tipici della criminalità predatoria, il delinquente sia scoraggiato dal reiterare il reato. Con questa convinzione, negata da interi scaffali di criminologia, il governo vuole che il Parlamento elevi le condanne possibili per il furto in appartamento e lo scippo fino a 10 anni. Come chiede mani libere per chiamare l'esercito a fronteggiare particolari crisi territoriali dell'ordine pubblico. La severità delle pene oltre un certo limite o il ricorso all'emergenza non hanno mai scoraggiato il crimine, che non si sentirà scoraggiato nemmeno stavolta. La strada da imboccare è la più semplice: il processo giusto. Indagini e dibattimento con accusa e difesa che affrontano il giudizio ad armi pari e,in caso di condanna, il carcere. Un carcere umano per chi con rigore, senza burocratiche trasandatezze, è ritenuto socialmente non pericoloso; severo e senza indulgenze per chi non lo è. Ecco il «giusto processo», anche se non c'è da farsi illusioni: in assenza dei complici interessi di maggioranza e opposizione, di questo processo giusto nessuno avrà voglia di occuparsi. 
di GIUSEPPE D'AVANZO