Tra i due litiganti la giustizia
soffre
da Il Messaggero del 27.11.99
di PAOLO GRALDI
QUEL bambino nato nel gennaio dell’86, mettiamo a Milano, oggi ha quasi
quattordici anni: frequenta la prima liceo scientifico, comincia a guardare
con interesse le ragazze e la domenica va allo stadio a godersi la squadra
del cuore con gli amichetti. Quel bambino immaginario, è nato nel
periodo in cui si sarebbero verificati i fatti di corruzione di giudici
romani attribuiti a Silvio Berlusconi e per i quali la prescrizione — che
sopravviene dopo quindici anni da quella data — è assai vicina.
Quel bambino ci offre, per la linearità dell’esempio, la plastica
dimostrazione di come proceda la giustizia in Italia: il capo dell’opposizione
ieri ha infatti appreso che dovrà essere processato in primo grado
nella prossima primavera, a ridosso delle elezioni regionali, per discolparsi
dall’accusa di aver sfilato soldi dai bilanci delle sue aziende affinché
il suo avvocato corrompesse dei giudici inducendoli ad aggiustare sentenze
che per di più sarebbero risultate sfavorevoli.
Berlusconi l’ha presa malissimo. Nel definire grottesca l’ennesima
accusa che gli è piovuta addosso, il Cavaliere è passato
all’attacco: denuncerà il giudice. Di rimando il capo dei Ds, Walter
Veltroni, gli ha dato dell'estremista di destra, negandogli la legittimazione
a candidarsi al vertice delle istituzioni per l’evidente disprezzo che
egli dice di nutrire verso la magistratura, la quale fa solo il suo dovere.
E così, chi aveva intravisto l’uscita dal tunnel dopo la doppia
assoluzione di Giulio Andreotti e la ricerca di una via d’uscita indolore
del "caso Craxi", con il coinvolgimento del governo, del parlamento e perfino
del capo dello Stato, tutti impegnati a ragionare sulla necessità
di stemperare i conflitti e le contrapposizioni, ripiomba nel clima dello
scontro frontale, incandescente e a rischio di diventare insanabile.
Certo la calma olimpica di animale a sangue freddo di Andreotti non
può paragonarsi agli impeti di furore esplosivo di Berlusconi: ma,
al di là dei caratteri, dei temperamenti, della pazienza dell’uno
e della stizza dell’altro resta, al fondo, assai preoccupante la percezione
diffusa di uno scadimento grave della credibilità delle istituzioni.
Berlusconi, che ha raccolto la metà dei voti degli italiani e che
sondaggi indicano come possibile vincitore di una prossima tornata elettorale,
può agire nell’apparente scompostezza dei giudizi e degli attacchi
per tre ragioni: per cinismo, sperando che il polverone lo avvolga aiutandolo;
per sconsideratezza, cioè non valutando le conseguenze generali
per fatti a lui solo riconducibili; per amore di una verità ch’egli
sente bruciargli in petto e per volontà di non restare schiacciato
da una azione che egli vive come persecutoria, ingiusta, politica.
Tutto ciò riguarda lui e dovrà farsene carico, risponderne
non ai giudici ma ai suoi elettori, meglio, alla gente. Quel che, invece,
sconcerta e impensierisce è che la Giustizia, in questo paese, rischia
la bancarotta di credibilità in quanto s’espone a lasciarsi coinvolgere
in un nuovo scontro con il potere politico e, per ciò stesso, rilanciando
un'insopportabile turbolenza all’interno delle dinamiche e degli equilibri
istituzionali.
Avvisato di reato nel ’94 attraverso le pagine di un quotidiano proprio
mentre apriva la conferenza mondiale dell’Onu sulla criminalità
a Napoli da presidente del Consiglio in carica, Berlusconi da allora ha
qualche motivo per credere che le cadenze imposte alle sue tumultuose vicende
giudiziarie abbiano risentito di una regia tutta tesa a colpirne dapprima
l’ingresso nella politica e quindi il successivo cammino. E questo al di
là della fondatezza o meno delle accuse, anche se sono ormai molte,
variegate, spazianti nei più diversi terreni, dall'acquisto di una
villa a quello della Mondadori, accuse alcune già cadute, altre
riconosciute vere: si spera che i giudici di merito sappiano valutare con
rigore e imparzialità, sfuggendo alle critiche abbattutesi sulla
pubblica accusa.
Ma è anche vero, lasciando stare il caso del Cavaliere, che
sono ormai molte decine le persone assolte "perché il fatto non
sussiste" dopo aver subito la gogna del carcere e anni e anni di pesantissimi
piombi morali e materiali. Alcune ne sono uscite assolte e distrutte definitivamente
nel fisico e nei beni, altre hanno superato il difficile guado restandone
fortunosamente indenni: portando tuttavia, tutte insieme, con sé,
il peso di una sconfitta più complessiva, generale, che travalica
le vicende personali e si iscrive solennemente nella percezione che ciascuno
ha e si fa dello Stato in cui vive e dentro il quale partecipa come cittadino
alla vitalità del paese.
Riflettano i giudici e i politici sulla necessità di abbandonare
i modi della rissa e i toni dello scontro al calor bianco quando si tratta
di guardare le questioni che investono la giustizia; riflettano gli uni
e gli altri sull’anomalia tutta italiana del rapporto snaturato che s’è
instaurato nella politica tra maggioranza e opposizione; quando il dibattito
si trasforma in una clava giudiziaria pensino alla delicatezza del momento
allorché il rapporto conflittuale connota le stesse scelte all’interno
della corporazione giudiziaria. Nessuno Stato può dirsi tale se
dentro la sua struttura, cioè nel rapporto dialettico tra maggioranza
e opposizione, esiste e persiste un contrasto sul ruolo pratico della magistratura.
Non importa, qui, se le accuse a Berlusconi sono vere o si riveleranno
inconsistenti: resta il fatto gravissimo di uno Stato lacerato tra due
componenti della democrazia. Quella politica che fa le leggi e stabilisce
i diritti, e quella giudiziaria, che cerca i fatti da regolare secondo
la legge e dice quali sono le situazioni concrete che debbono essere chiamate
diritti. Nessuno Stato di diritto può reggere a lungo un simile
sconquasso. E da noi lo sconquasso, talvolta, appare infinito.
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