Regole da cambiare ma senza invettive
da Il Mattino del 27.11.99
Paolo Gambescia
Sulla giustizia è rissa continua. Il nuovo rinvio a giudizio
per Silvio Berlusconi ha ridato la stura ad un fuoco incrociato di contumelie
che, francamente, lasciano sconcertati.
Certo il nervo è scoperto, troppi sospetti si sono addensati
su molte inchieste giudiziarie, molti comportamenti dei magistrati inquirenti
sono stati e sono censurabili, tante sentenze di assoluzione hanno smontato
costruzioni accusatorie. Ciò non contribuisce a creare un clima
sereno nel quale esercitare il doveroso rispetto che si deve all’autonomia
e all’indipendenza della magistratura. E tuttavia continuiamo a pensare
che si debba fare di tutto perché intorno ad un delicato argomento
come quello della giustizia, il cui corretto funzionamento è principio
cardine di ogni democrazia, si debba ragionare con pacatezza.
Ogni imputato ha diritto a battersi contro provvedimenti che ritiene
ingiusti e lesivi della libertà individuale. Di conseguenza, ogni
imputato, ogni inquisito ha diritto ad esprimere le sue critiche alla sostanza
e al metodo che hanno portato a tali provvedimenti. Berlusconi, ovviamente,
non fa eccezione. Ma il Cavaliere sbaglia, a nostro avviso, quando agita
lo spettro di un complotto che starebbe dietro questo rinvio a giudizio.
Un complotto politico del quale questo o quel magistrato si farebbe strumento
per colpire «un avversario». Sbaglia perché lancia un’accusa
generica mentre, vista la gravità dell’assunto, avrebbe il dovere
di indicare chi sta complottando e come la magistratura viene condizionata.
Sbaglia anche perché, in tutta franchezza, dopo anni di scontro
e alla luce di alcune sentenze assolutorie clamorose i suoi avversari politici
sarebbero ben sciocchi ad usare l’arma giudiziaria per raggiungere un risultato
politico.
Non siamo più all’inizio degli anni Novanta, l’onda giustizialista
si è spenta, l’opinione pubblica non cerca più iconoclastiche
vendette contro una classe dirigente che aveva compiuto laversazioni e
ruberie. Ma sbaglia anche perché, il dato non sembri squisitamente
tecnico, una cosa è battersi contro un’ipotesi accusatoria e altro
è negare validità alla conclusione di un giudice terzo, come
è il caso del rinvio a giudizio pronunciato ieri. Di questo passo
dovrebbero essere inficiate tutte le sentenze, quelle di assoluzione e
quelle di condanna, a seconda dell’ottica dalla quale le si legge. E questo
non è pensabile in uno stato di diritto. Chi era convinto della
colpevolezza del senatore Andreotti non avrebbe dovuto accettare l’assoluzione
pronunciata dai giudici di Palermo? La giustizia non può essere
buona o cattiva a seconda delle convenienze.
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