L'analisi di Emanuele Macaluso
da La Stampa del 27.10.99
ANDREOTTI era imputato dei reati più infamanti per il codice
e la moralità politica: a Perugia come mandante di un omicidio (la
procura aveva chiesto l’ergastolo), a Palermo per associazione mafiosa
(la procura aveva chiesto quindici anni di carcere). Prima e dopo le sentenze
si è discusso se i processi erano «politici», nel senso
che sotto accusa erano anche la Dc e il sistema politico da essa governato;
o, come diceva Caselli, si trattava solo di un processo ad un uomo politico
che si era macchiato di reati comuni. Ora questa distinzione era, in una
certa misura, valida per il processo di Perugia, non lo era per quello
di Palermo. Il tentativo di spaccare Andreotti in due - capo corrente della
Dc siciliana inquinata e in quanto tale processato, presidente del Consiglio
e ministro e in quanto tale non processabile - fu fatto per tenere il processo
a Palermo e non trasferirlo a Roma presso il Tribunale dei ministri.
Tesi fatta propria, senza fiatare, dal giudice dell’udienza preliminare,
dott. Agostino Gristina, il quale ebbe a scrivere che «il contributo
a Cosa nostra (da parte di Andreotti - N.d.R.) era derivante dalla concentrazione
di potere nelle mani dell’imputato quale capo corrente nazionale e internazionale,
avente la capacità di influenza e di condizionamento largamente
superiore a quella limitata, settoriale e temporanea che allo stesso poteva
derivare da incarichi istituzionali». Quindi Andreotti era autorevolissimo
sul piano nazionale e internazionale non per i suoi incarichi di governo,
ma perché capo-corrente. Ogni commento è superfluo. Tale
linea è stata successivamente travolta da tutta la condotta tenuta,
nel corso del processo, da parte dei pm. Il dott. Roberto Scarpinato nella
sua requisitoria contro Andreotti ha detto che «il potere armato
di Cosa nostra e il potere di Andreotti si sono “ibridati” dando vita ad
un nuovo potere politico-mafioso, e quindi - aggiunge il pm - la mafia
è diventata una associazione unica al mondo che ha esercitato la
sovranità di uno Stato illegale». Se la mafia poteva esercitare
questa sovranità in uno «Stato illegale», tramite un
Andreotti «ibridato» con Cosa nostra, non lo faceva certo grazie
alla corrente andreottiana siciliana, ma grazie ai poteri che l’ex presidente
del Consiglio esercitava nelle sue funzioni statali. Questo processo di
«ibridazione» poteva guidarlo e realizzarlo Andreotti con la
sua corrente siciliana? O questa logica chiama in causa il ruolo della
Dc nel suo complesso come partito di governo, e più in generale
il sistema politico italiano?
Con questa valutazione della procura palermitana la dimensione politica
del processo è riemersa, dato che, tramite Andreotti, si sarebbe
verificata l’ibridazione tra mafia e Stato. Da qui la domanda che ci siamo
sempre posti: questo nodo poteva e doveva essere sciolto in un’aula di
giustizia del Tribunale di Palermo? La nostra risposta è stata chiara:
no. E’ inutile spendere chiacchiere in luoghi comuni quali Andreotti è
solo un imputato come altri, la legge è uguale per tutti, finalmente
un potente alla sbarra ecc. Ma Andreotti non era accusato, come Clinton,
di molestie sessuali o di omicidio per motivi personali. Era accusato di
avere «ibridato» lo Stato con la mafia. Il nodo quindi era
essenzialmente politico. Il Parlamento, invece, scaricò tutto all’autorità
giudiziaria. Non a caso nel corso del processo si è parlato anche
delle leggi antimafia fatte o non fatte e delle linee politiche seguite
per contrastare Cosa nostra.
Un nodo politico, quindi, che è riemerso dopo la sentenza di
assoluzione. Si spiegano così le reazioni a cui abbiamo assistito
soprattutto da parte di chi è stato nella Dc: da Castagnetti a Cossiga,
da Martinazzoli a De Mita, da Mastella a Elia, da Casini a Bianco, da Buttiglione
a Letta. Tutti hanno difeso non solo la storia personale di Andreotti,
ma il ruolo della Dc. E si è ricordato Moro: la Dc non si fa processare.
A sinistra (Ds) tanta ipocrisia, da un canto si dice che il processato
era Andreotti e non la Dc (c’è di mezzo il rapporto con i popolari
e lo stesso Prodi), dall’altro si esalta oltre misura l’opera dei pm palermitani
che hanno messo sotto accusa il «sistema». Fino all’ultimo
giorno l’Unità ha tifato per la condanna, e successivamente i dirigenti
Ds hanno tenuto a dire che non bisogna confondere la politica con i processi,
che la Dc non si processa ma resta sotto accusa ecc.
Ma è questo il punto? Come, perché e quando nasce e cresce
il «caso» giudiziario Giulio Andreotti? Il perché lo
dice bene Edmondo Berselli (Il Sole 24 Ore del 24 ottobre). «Il processo
contro Andreotti era nato da un’intenzione prometeica quanto sbagliata:
cioè dalla volontà di identificare attraverso lo strumento
giudiziario identità, ruoli, azioni che appartengono alla sfera
della politica. Dopo la drammatica crisi agli inizi degli Anni Novanta,
nessuno meglio di Andreotti appariva il bersaglio più opportuno
per colpire l’Italia contaminata dalle collusioni con il potere mafioso.
Colpire lui, trascinarlo nelle aule dei tribunali, sottoporlo a confronti
umilianti equivaleva a processare un’intera esperienza politica, allo scopo
di dimostrare una volta per tutte le responsabilità e le complicità
di cui si era macchiato il passato regime».
Quando nasce? Nasce in una sede politica, nella Commissione Antimafia
presieduta dall’on. Luciano Violante, nel momento in cui fu affrontato
il rapporto tra mafia e politica. Nel novembre del 1992 venne interrogato
Tommaso Buscetta (con una procedura omonima furono interrogati alcuni pentiti),
il quale parla di Andreotti senza farne il nome, con un linguaggio e ammiccamenti
tipicamente mafiosi. C’è di più. A Buscetta, Violante chiede
«se un uomo politico amico di Cosa nostra deve fare una legge contro
di voi... deve avvertirvi... e spiegarvi qualcosa?». Buscetta: «Si
fa e lui deve conservare quell’immagine pubblica a scapito di Cosa nostra».
Il riferimento è chiaro: Andreotti doveva fare leggi antimafia ma
noi sapevamo e capivamo. E’ stato un nodo del processo. Ad esplicitare
il nome e gli intendimenti provvede la «nota integrativa alla relazione»,
che fa corpo con essa, scritta dall’on. Alfredo Galasso. Il quale inizia
il capitolo che porta il titolo «La funzione di Giulio Andreotti»
con queste righe: «Per ricostruire lo scenario dei rapporti tra mafia
e politica che ha caratterizzato la storia del nostro Paese negli ultimi
quarant’anni non può non farsi riferimento alla figura e al ruolo
del senatore Giulio Andreotti. Egli è stato un pilastro della vita
politica e istituzionale di questi anni, un personaggio fondamentale di
questo sistema politico e della sua degenerazione. E’ compito della Commissione
Antimafia occuparsene non per giungere ad un giudizio politico generale,
ma per individuare in modo più specifico e puntuale gli interessi
e i personaggi che hanno contrassegnato la dimensione politica della mafia.
Andreotti ha svolto a lungo una funzione di garanzia del sistema di potere
mafioso».
A rincarare la dose provvede la relazione di minoranza dei parlamentari
del Msi-Alleanza nazionale scritta dall’on. Altero Matteoli e dal senatore
Michele Floriano, e dimenticata dall’on. Fini quando accusa solo i Ds di
avere criminalizzato Andreotti. I due scrivono: «Insomma non c’è
vicenda, che vada dai doganieri corrotti ai finanzieri improvvisati, dai
petrolieri alle tangenti ai partiti, dalle trame rosse o nere ai Servizi
segreti; e, quindi, a manovrare sono le cosche o la P2 ovvero uomini come
Licio Gelli, Salvo Lima, Michele Sindona, Roberto Calvi o Vito Ciancimino,
a fianco davanti o dietro a tutto ciò spunta sempre il nome di Giulio
Andreotti. Non c’è quindi da meravigliarsi se in Andreotti, tramite
l’amico Lima, la mafia identificasse lo strumento non solo per «aggiustare
i processi» ma anche per i rapporti politici con gli Usa e la Cee
e le sue connessioni con la finanza, essendo il politico di potere più
stabile. Per non parlare poi del peso di Andreotti sui vertici dei Servizi
segreti e dell’Arma dei Carabinieri. Pertanto riteniamo la relazione presentata
dall’on. Violante e votata dalla Commissione Antimafia a larga maggioranza
in data 6 aprile 1993, un passo avanti rispetto al passato ma non sufficientemente
incisiva».
Va ricordato che la relazione di Violante, dove sono tracciate le responsabilità
di Andreotti come capo-corrente di Lima e dell’accordo fatto tra quest’ultimo
e Ciancimino, fu approvata all’unanimità (Pds - socialisti - Dc
- liberali - repubblicani) con l’eccezione del radicale on. Taradash che
fece una sua relazione. E del Msi-Destra nazionale che presentò
un suo testo, ritenendo «evasiva» quella di Violante su Andreotti.
Taradash racconta che un parlamentare Dc chiese e ottenne un autografo
di Buscetta. La nota integrativa di Galasso è ampia e i punti più
significativi li ritroveremo nel documento d’accusa della procura palermitana.
Ecco perché penso che la responsabilità e la viltà
delle forze politiche è il vero punto di partenza di un «caso»
giudiziario che ha sempre conservato la sua essenzialità politica
evitando di affrontarlo nella sede politica. Ecco perché oggi, dopo
la sentenza, le forze «nuove» sono chiamate a fare i conti
con il «caso». Le ipocrisie non servono. Serve invece una riflessione
seria e rigorosa sui primi Anni Novanta e sulla crisi del sistema politico.
Non è un caso che la cosiddetta transizione non trovi sbocchi e
la sinistra non riesca a ritrovare un nuovo punto di riaggregazione. Le
reazioni della destra alla sentenza sono state becere e rozze e quelle
della sinistra reticenti, ipocrite e corrive. Sono il segno dell’impotenza
e della viltà in cui si trova, ancora una volta, la politica.
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