Ayala: bisogna avere il coraggio
di buttare via certe dichiarazioni
da Il Messaggero del 27.10.99
di GIUSEPPE DI PIAZZA
ROMA - Ma lei aveva previsto come finivano i due processi ad Andreotti?
«Quello di Palermo sì: assolto, articolo 530 comma 2.
Mancanza, insufficienza o contradditorietà delle prove. Il mio vecchio
amico avvocato Raffaele Restivo, che era presente, può testimoniare
sulla bontà del mio pronostico».
Non mi dica che ha sbagliato la previsione di Perugia: pensava che
lì lo condannassero?
«Non c’era bisogno di fare pronostici sul processo Pecorelli.
Si sapeva, in modo matematico, come sarebbe finito».
L’hidalgo dell’antimafia, al secolo Giuseppe Ayala, 54 anni, da Caltanissetta,
uno degli ultimi uomini liberi che fumano Super senza filtro lunghe, vorrebbe
non dire, sorvolare per diplomazia su questo disastro del processo Andreotti,
ma poi siccome il suo carattere è solare come un giardino di limoni,
finisce per dire, accettando di dare giudizi taglienti e ragionati, ma
a una condizione: che a parlare non sia Giuseppe Ayala sottosegretario
alla Giustizia, ma Giuseppe Ayala ex sostituto procuratore a Palermo, amico
fraterno di Giovanni Falcone, pubblico ministero al primo maxi-processo
contro Cosa Nostra. Una minuzia, una sottigliezza da siciliani, e dunque,
proprio per questo, volentieri accolta.
Dottor Ayala, ex pm Ayala: cominciamo dall’inizio?
«Un giorno della primavera dell’80 mi incontrò per strada,
in via Libertà a Palermo, l’allora procuratore della Repubblica
Gaetano Costa. Mi conosceva da quand’ero bambino, come amico di suo figlio.
Mi disse: "Ma che ci fai ancora in pretura a Mussomeli. Vieni a Palermo...".
Feci domanda, il Csm l’accolse, e io nel settembre ’81 diventai sostituto
a Palermo: il procuratore Costa era stato ucciso dalla mafia 13 mesi prima.
Capii che la mia vita era cambiata».
Un giovane nisseno elegante, un po’ dandy, catapultato a combattere,
senza guantoni, nientemeno che contro la Piovra...
«Però c’era una squadra eccezionale. Giovanni Falcone,
il procuratore Pajno, poliziotti come Ninni Cassarà e carabinieri
come Tito Baldo Honorati, e poi investigatori come Gianni De Gennaro, che
Falcone chiamava "il fuoriclasse". I pedinamenti li facevano con le vespe
delle fidanzate, ma avevamo capito che la svolta era possibile».
Quando?
«Fu grazie a un fucile mitragliatore. Un kalashnikov. Potrei
dire che la moderna lotta alla mafia deve molto a quell’arma automatica
che veniva dall’Est. I killer lo utilizzarono prima contro la vetrina di
un gioielliere, poi per uccidere i boss Bontade e Inzerillo, poi per la
strage della Circonvallazione, poi per Dalla Chiesa... Sempre la stessa
arma: e noi capimmo che era, dunque, sempre la stessa organizzazione. Cosa
Nostra come struttura unitaria e verticistica. Cioè, l’impianto
giudiziario del maxi-processo, confermato dalle prime dichiarazioni di
Tommaso Buscetta».
Ne è passata di acqua, da allora. Una lista terribilmente lunga
di vittime, una seconda generazione di antimafia a guidare le danze, Andreotti
assolto due volte... Differenze rispetto ai vostri tempi?
«Ho notato un certo favor pentiti, e un ricorso un po’ troppo
facile alle manette».
Può spiegare il "favor"?
«I magistrati, in questa nuova stagione, hanno fatto un uso meno
selettivo delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Sarò
più chiaro: bisogna sempre avere il coraggio di buttare nel cestino
certe dichiarazioni, che altrimenti rischiano di inficiare l’intero lavoro.
E questo, talvolta, non è stato fatto. Ben inteso: sempre in buona
fede».
C’è qualche dichiarazione di pentiti che lei, da pm, non avrebbe
usato?
«Noi avevamo una regola: le dichiarazioni de relato non entravano
in aula. Cioè, non impiantavamo un’inchiesta su quello che il tale
collaboratore aveva saputo dal tal’altro boss, solitamente morto. Era troppo
debole e finiva per sgretolarsi in aula. A meno che la dichiarazione non
era facilmente riscontrabile: ho saputo dal boss Tanuzzu che lì
c’è un fucile sepolto. Se il fucile c’era davvero, allora sì,
quella dichiarazione entrava nel processo...»
Lei non avrebbe mai utilizzato, quindi, Tommaso Buscetta quando racconta:
«Ho saputo da Gaetano Badalamenti che l’omicidio Pecorelli è
stato fatto da "noi" nell’interesse di Andreotti»?
«No comment».
Ma lei l’ha mai perso, da pm, un processo?
«No».
Non crede che in questi ultimi anni si siano compiuti eccessi di giustizia,
volendo usare una perifrasi?
«A cosa si riferisce?»
Per esempio all’articolo 192: le dichiarazioni concordanti di alcuni
pentiti bastano a mandare in galera qualcuno. Una norma assolutamente emergenziale...
«La cosa è delicata. Ed è da regolamentare. (Qui
torna a parlare il sottosegretario Giuseppe Ayala). Io e il collega Sinisi,
del ministero dell’Interno, abbiamo scritto la proposta di riforma, poi
firmata da Flick e Napolitano, che è ancora in attesa di approvazione.
Il nodo è tutto lì, nella capacità che lo Stato ha
di sterilizzare il collaboratore nei primi sei mesi, quando racconta. Se
non ha contatti con nessun altro collaboratore, allora in quel caso le
sua dichiarazioni, se convergono con quelle di altri, avranno più
valore. Altrimenti resterà sempre il sospetto che i collaboratori
si possano essere messi d’accordo».
Sottosegretario, che effetti avrà la sentenza Andreotti?
«Grandi. Un’onda d’urto che non siamo ancora in grado di valutare».
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