L'anomalia della giustizia
da La Repubblica del 27.10.99
di GIOVANNI VALENTINI
SI può parteggiare per la destra o per la sinistra, si può
essere favorevoli o contrari a Tangentopoli, si può pensare che
il "processo All Iberian" a carico di Craxi e Berlusconi fosse giusto o
meno, fatto sta che la prescrizione dei reati di illecito finanziamento
al Psi è una sentenza di cui dovrebbe vergognarsi qualsiasi cittadino
di un paese civile, di qualsiasi colore, fede e opinione. Non solo perché
dimostra l'impotenza della nostra giustizia. Ma tanto più perché
si collega, con una coincidenza temporale già sospetta e inquietante,
a una "campagna di liberazione" per l'ex segretario socialista, quasi fosse
un eroe o un martire in esilio, in una miscela esplosiva tra politica e
malaffare che può trovare nel "caso Craxi" un detonatore.
SUL piano del diritto, secondo le regole che presiedono all'amministrazione
della giustizia, in sé il verdetto della Corte d'Appello di Milano
può anche essere considerato legittimo e fondato; un verdetto formalmente
ineccepibile; come si dice, a norma di legge. Ma è comunque una
decisione che grida vendetta al cielo perché rappresenta una sconfitta
dell'idea stessa di Giustizia, uno smacco, una dichiarazione di resa da
parte di uno Stato, di un sistema, di un apparato giudiziario che non riesce
più nemmeno a giudicare, non rispetta i termini del processo e li
lascia scadere come le bollette della luce o le prenotazioni aeree.
Altro che "giustizia normale", altro che "primo passo verso una giustizia
normale", come si sono affrettati a commentare ieri sera i difensori del
duo Craxi-Berlusconi e i responsabili della cosiddetta sezione Giustizia
di Forza Italia, il partito-azienda che proprio in questo passaggio rivendica
ed esalta la continuità anche personale e affaristica con la peggiore
eredità del glorioso Psi. Qui siamo alla Caporetto della giustizia
italiana, alla liquidazione di quella certezza del diritto su cui si fonda
la convivenza sociale. Siamo alla "giustizia anomala", all'incertezza del
diritto, all'incognita della pena, come se il processo fosse ormai un gioco
d'azzardo o una puntata al casinò.
Riconosciuti colpevoli e condannati entrambi in primo grado, Craxi
e Berlusconi non vengono tuttavia assolti da una sentenza come questa che
non ne dichiara l'innocenza bensì l'impunità. Hanno ragione
quindi i loro legali a ritenersi parzialmente soddisfatti, dal momento
che avevano chiesto e non hanno ottenuto l'assoluzione dei due imputati.
Sbagliano invece a dire che ne esce sconfitta la Procura di Milano, perché
qui a perdere non è solo il procuratore Borrelli, insieme a ciò
che resta del "pool" e di Mani pulite, ma piuttosto un'istituzione portante
a cui è affidata la tutela della legge nell'interesse della collettività.
Lo stesso uso strumentale e propagandistico che di questa prescrizione
gli esponenti del Polo hanno tentato di fare rivela la faziosità
del loro atteggiamento. È vero: i reati addebitati a Craxi e Berlusconi
risultano ora estinti, ma ciò non significa che non li hanno commessi
né tantomeno che sono due perseguitati politici. Anzi, il primo
verdetto di condanna emesso da un tribunale in nome del popolo italiano
sta lì a indicare che l'accusa non era infondata, che le prove c'erano
ed erano ampiamente documentate. A questo punto l'attacco frontale alle
procure si dispiega nella sua geometrica potenza con l'evidente proposito
di capitalizzare una rendita giudiziaria ed elettorale, sull'onda delle
sentenze di Perugia e di Palermo a favore di Andreotti, l'unico vero superstite
del famigerato terzetto che andava sotto il nome di Caf e che ha inquinato
la vita nazionale nei felici anni Ottanta.
Nella cornice di una tale partita, giocata all'insegna della normalizzazione
e della restaurazione, il "caso Craxi" diventa nello stesso tempo un obiettivo
e un simbolo, un pretesto e uno scopo. Non abbiamo nessuna difficoltà
a distinguere l'aspetto umano da quello politico e giudiziario. Se l'uomo
è malato, "gravemente malato" come si preoccupa di enfatizzare il
Tg 5 berlusconiano, se ha bisogno di cure e queste cure gli possono essere
prestate più efficacemente in Italia, non c'è alcun motivo
per ostacolare il suo rientro. Non c'è e non c'era per la verità
neppure prima, a condizione beninteso che questo avvenga nel rispetto della
legge, oltreché della persona, senza trattamenti di favore e soprattutto
senza colpi di spugna o condoni "ad personam".
Quando il socialista Boselli va a palazzo Chigi per parlare della crisi
di governo e chiede al presidente del Consiglio un "gesto umanitario" verso
l'ex segretario del Psi, già condannato da una sentenza definitiva,
fa dunque una richiesta legittima ma la rivolge alla persona sbagliata.
Non è D'Alema infatti che può disporre una sospensione o
un differimento della pena né rilasciare un salvacondotto a Craxi:
e correttamente è lui stesso a dirlo, mentre dichiara di non avere
nulla contro il rientro. La decisione spetta semmai al Tribunale di sorveglianza
e forse, per rispettare le competenze, il procuratore D'Ambrosio avrebbe
fatto meglio a non anticipare il suo parere favorevole.
Tutta questa operazione, però, sarebbe francamente più
limpida e chiara se avvenisse fuori da un contesto di rivincita, fuori
da una logica di rivalsa che tende ad annullare le responsabilità
e a cancellare il passato. Nessuno in buona fede può considerare
Craxi come il Diavolo, come la causa esclusiva di tutti i mali della vita
politica italiana, come l'origine e il motore di Tangentopoli. Ma nel clima
ambiguo ed euforico introdotto dall'esclation delle sentenze di Perugia,
di Palermo e ora di Milano, non vorremmo neppure che scattasse una prescrizione
automatica anche per i reati accertati e puniti, un'amnistia generale,
una riabilitazione collettiva. Non sarebbe certamente questa la soluzione
invocata da più parti in passato per chiudere la stagione di Mani
pulite, per uscire in modo ragionevole e trasparente dal "buco nero" in
cui l' Italia era precipitata.
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