Il procuratore capo di Palermo: non abbandoniamoci al catastrofismo

da La Stampa del 27.9.99

PALERMO 
PIERO Grasso è appena arrivato da Capri, dove ha parlato di criminalità nell’ambito del Simposio Dinners su «L’altra faccia del Mezzogiorno». Gli chiediamo di portare ancora pazienza e di accettare qualche domanda. «Non pensavo che le cose dette a Capri - cerca di defilarsi - potessero accendere qualche curiosità. Il mio pensiero su queste problematiche è talmente noto...». Alla fine, però, trova rassegnazione ed accetta, «anche per chiarire meglio alcuni concetti che potrebbero essere stati fraintesi o in qualche modo stravolti perché estrapolati da un contesto più ampio per necessità di sintesi». 
Procuratore Grasso, cosa intende dire quando afferma che per comprendere la genesi di alcuni processi come quello di Perugia bisogna risalire al clima emotivo degli anni ‘92 e ‘93? 
«Semplicemente che si è verificata una grande mobilitazione generale per far fronte ad una situazione che era divenuta insostenibile. Ricordo il gesto disperato del consigliere Caponnetto che, piangendo, diceva: “E’ finita, non c’è più nulla da fare”. Per fortuna la reazione c’è stata e non ci siamo arresi nelle mani di Cosa nostra. E’ chiaro che quel clima ha costituito la spinta per fare: è arrivato il 41 bis e sono arrivati i collaboratori di giustizia e, inevitabile, la stagione dei processi conseguenza di tutto quel castello di rivelazioni che si è riversato nelle procure». 
Un clima che a molti sembra cambiato, signor procuratore. 
«Non abbandoniamoci al catastrofismo. Non c’è motivo, non mi sembra che le cose vadano così male. Credo che in questo momento ciò di cui abbiamo più bisogno sia una grande serenità e la volontà di andare avanti». 
E’ innegabile che la mafia non sia riconosciuta più come un’emergenza. Non esiste più? 
«Forse è scomparsa dai giornali, non certamente dalla nostra agenda. I magistrati continuano a lavorare e, state tranquilli, non sottovalutano il pericolo». 
Già, ma intanto la legge sui pentiti giace al Senato e sul tavolo del governo al primo posto c’è l’emergenza-sicurezza e passa quasi inosservata la strategia di Cosa nostra di riappropriarsi, con qualche successo, del territorio. Basta pensare alle estorsioni. 
«Perché la legge sui pentiti sia ferma, bisogna chiederlo a chi non la “spinge”. Sulla sicurezza dei cittadini dico che è importante quanto la lotta alla mafia. Non bisogna commettere l’errore di sottovalutare le conseguenze deleterie che possono provocare il senso di impotenza, la rabbia dei cittadini di fronte all’aggressione della microcriminalità. Rendere normale una città come Palermo, o come Napoli, vuol dire anche garantire la tranquillità di tutti, continuando a non offrire tregue alla mafia. Anzi, l’ideale sarebbe riuscire a rendere ordinaria quotidianità la lotta al crimine organizzato, cioè rendere normale ciò che finora è stato eccezionale». 
La polemica sui pentiti, le sembra motivata? 
«Bisogna distinguere. Qualcosa andava cambiato e mi sembra che si stia provvedendo. Ciò che non deve prevalere è il clima di confusione che genera equivoci, come quello di generalizzare momenti che hanno poco in comune. Il collaboratore, io non amo la parola pentito, è uno strumento giudiziario e come tale deve essere considerato. Perciò se le sue dichiarazioni trovano riscontro, non possono essere inficiate né dal giudizio morale che si dà di lui, né dai suoi comportamenti. La sua attendibilità deve essere valutata nel processo e spetta al giudice. Ciò che lo Stato deve garantire è solamente la protezione e la possibilità di uno sconto di pena, sempre nell’ambito della legge». 
Però può provocare sconcerto vedere in libertà autori di reati gravi. 
«Ecco questo è un tipico esempio di confusione. La revoca della custodia cautelare è prevista per tutti i cittadini indagati che vengano considerati non pericolosi, non offrano rischi di fuga e di reiterazione del reato. I collaboratori ottengono spesso la libertà, è vero, ma non deve essere confusa con l’impunità. Quando le sentenze diverranno definitive, infatti, per molti di loro si riapriranno le porte del carcere». 
Procuratore, non posso non farle la domanda-tormentone. Dopo Perugia che ne sarà del processo Andreotti? 
«Ogni dibattimento fa storia a sé. Checché se ne pensi, i magistrati tengono alla propria autonomia di giudizio e quindi non credo che Perugia influenzerà Palermo».