In Italia batte un cuore garantista

da Il Sole 24 ore del 27.9.99

Sulla complessa questione dei rapporti fra criminalità e sistema penale, tanto attuale in questi giorni, sono state condotte nell’ultimo trentennio grandi e rigorose ricerche empiriche, sia negli Stati Uniti che in alcuni Paesi europei (non ancora, purtroppo, in Italia).
La questione è stata affrontata da due diversi, ma entrambi importanti, punti di vista. Da un lato si è cercato di capire quali effetti abbiano, sulla criminalità, la certezza e la severità delle pene. L’ipotesi che è stata sottoposta a verifica è che, mandando in prigione un numero più alto di autori di reati e facendoceli stare più a lungo, si possa ridurre la criminalità in due modi. Con la deterrenza, perché l’esperienza del carcere può portare coloro che la fanno a non violare di nuovo le norme una volta tornati in libertà (deterrenza speciale) o perché la paura di finire in galera può convincere gli altri a non correre questo rischio (deterrenza generale). Con la neutralizzazione, cioè impedendo fisicamente ai condannati di commettere altri reati.
Dall’altro lato ci si è invece chiesti se i tassi di incarcerazione dipendano da quelli di criminalità o non siano dovuti invece anche o soprattutto ad altri fattori (come, ad esempio, l’allarme sociale e le richieste di sicurezza dell’opinione pubblica). È di questo secondo aspetto che mi occuperò qui esaminando alcuni dati significativi sull’Italia e su altri Paesi.
L’Italia ha oggi un tasso di incarcerazione di 85 detenuti su 100mila abitanti. Alla fine del 1998, nelle carceri italiane vi erano infatti 49.173 persone. Questa vasta popolazione è prevalentemente giovane, quasi esclusivamente maschile (le donne sono solo il 4%) ed è costituita per più di un quinto da stranieri immigrati e per più di un quarto da tossicodipendenti. Le serie storiche dell’Istat ci dicono che, nell’ultimo secolo, è rimasta immutata sotto due aspetti: per la sua composizione per età e per sesso.
Profonde trasformazioni vi sono tuttavia state per altri aspetti. In primo luogo, la quota dei detenuti in custodia cautelare sul totale della popolazione carceraria è raddoppiata dal 1955 al 1980 (passando dal 35 al 69%) per diminuire nel ventennio successivo ed arrivare al 43% nel 1998. In secondo luogo, nell’ultimo decennio, la quota di immigrati e di tossicodipendenti è fortemente aumentata. In terzo luogo, nel corso dell’ultimo secolo, le dimensioni della popolazione detenuta hanno subìto forti variazioni. Nell’ultimo cinquantennio il tasso d’incarcerazione, dopo essere diminuito, ha avuto un andamento stabile (oscillando fra il 65 ed il 75 per 100mila) e ha ripreso a crescere negli anni 90.
Interessanti sono anche i confronti fra l’Italia e gli altri Paesi. Oggi nel mondo i detenuti (condannati con sentenza definitiva o in custodia cautelare) sono circa 8 milioni e più della metà di loro si trovano nelle carceri degli Stati Uniti (un milione e 700mila), della Cina (un milione e 400mila) o della Russia (un milione). Ma i tassi di incarcerazione variano fortemente a seconda del Paese. Quello più alto l’ha la Russia (685 per 100mila), seguita dagli Stati Uniti (645). Ma hanno tassi piuttosto elevati anche il Cile, alcuni Paesi dell’Africa e quelli dell’Europa orientale. Mentre, all’estremo opposto, l’India ed il Giappone sono i Paesi con i tassi più bassi (25 e 40).
Forti differenze vi sono anche fra i Paesi dell’Europa occidentale. La Grecia ed i Paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia) hanno i tassi più bassi. Il Portogallo, l’Inghilterra, la Scozia, la Spagna ed il Lussemburgo hanno quelli più alti. L’Italia occupa una posizione intermedia nella graduatoria europea, con un tasso simile (ma leggermente inferiore) a quello della Francia e della Germania (entrambe a 90). Ma l’Italia e la Francia hanno una quota assai più alta di detenuti in custodia cautelare sul totale della popolazione carceraria di molti altri.
Una parte delle differenze del tasso di incarcerazione che vi sono state nell’ultimo secolo in Italia o di quelle che si riscontrano oggi fra i vari Paesi possono essere ricondotte a variazioni nel tasso di criminalità. Se, ad esempio, il numero dei detenuti è diminuito durante i periodi bellici, ma è aumentato in quelli post bellici, è esattamente perché il numero degli omicidi, delle rapine e dei furti ha avuto lo stesso andamento.
Analogamente, se il Giappone ha il tasso più basso di incarcerazione di tutti i Paesi sviluppati è perché ha contemporaneamente livelli di criminalità comune di gran lunga inferiori. Ma come spiegare il fatto che i forti aumenti di questa criminalità avvenuti in Italia negli anni 70 e 80 non sono stati seguiti da una crescita del tasso di incarcerazione? E perché l’Italia ha un tasso più basso dell’Inghilterra, della Scozia, dell’Australia, del Canada, degli Stati Uniti, della Spagna o del Portogallo?
I dati esistenti ci dicono che le variazioni nello spazio e nel tempo del tasso di incarcerazione dipendono anche (e talvolta soprattutto) dalle politiche in materia penale seguite dai governi e dall’atteggiamento e dalle richieste dell’opinione pubblica. Eloquenti sono, da questo punto di vista, i risultati dell’International Crime Victims Survey. A campioni rappresentativi della popolazione di alcuni Paesi è stato chiesto quale pena sia giusto infliggere (una multa, il carcere, l’obbligo di prestare servizio per la comunità) a un giovane di 21 anni colpevole di aver commesso per la seconda volta un furto in appartamento (rubando un televisore a colori). L’analisi dei dati ha messo in luce che il tasso di incarcerazione è più elevato nei Paesi nei quali maggiore è la quota di intervistati che manderebbe il giovane recidivo in galera. E l’Italia è, secondo questa indagine, uno dei Paesi nei quali questa quota è più bassa.