Normalità,
la sfida. Regole certe. Cioè democrazia
da Il Mattino del 28.12.98
GIUSEPPE MARIA BERRUTI
a sei anni la Giustizia è il terreno sul quale si scontrano
le tensioni del Paese e l’obiettivo di grandi manovre politiche. Non potrebbe
essere che così, dal momento che il catalizzatore di una crisi che
ha visto il crollo dei partiti che dominavano il Paese da mezzo secolo
è stata l’azione di pubblici ministeri. Non credo si sia trattato
di una rivoluzione. Credo che l’esigenza di ricambio che premeva contro
un sistema blindato fino alla sordità, alla fine ha trovato nell’azione
dei magistrati la crepa nella quale infilarsi. La domanda violenta di punizione
subito è stata conseguente alla scoperta ubriacante di vedere qualcuno
che abbatteva le persone che erano il segno del potere. Ovvia la creazione
dell’eroe giudiziario, ed ovvia la centralità dei processi. Tant’è
che il tentativo di riforma della Costituzione da parte della Commissione
bicamerale si è rotto sui pubblici ministeri.
1) Primo evento collegato alla Giustizia che il 1998 ha visto è
stata la caduta di un disegno politico che per sua natura richiedeva un
accordo parlamentare più ampio di quello fornito dalla consistenza
di ciascuno dei due poli. Perciò insieme alla bicamerale, almeno
fino ad oggi, è caduta la possibilità di cambiare le leggi
elettorali, estranee alla riforma costituzionale ma legata anch’essa alla
creazione di un grande consenso politico. Tutto si tiene, insomma. La Giustizia,
che ha segnato l’inizio della crisi, è il nodo da sciogliere per
risolverla. Ed analizzare i problemi che il ’98 ci lascia ci aiuta a guardare
al ’99.
2) Tutti d’accordo, o quasi, sulla necessità di riprendere fiato
rispetto al controllo giudiziario. Molte delle ricette in questa direzione
ritengono si debba limitare la discrezionalità dei magistrati nello
scegliere l’imputato da perseguire. Perché fino a che la magistratura
è stata omogenea al potere politico l’obbligatorietà dell’azione
penale non è stata un vero problema. Quando la magistratura ha sentito
di più la domanda di cambiamento che emergeva dalle denunce ai pm,
ha sentito anche che quella omogeneità era finita. I delitti contro
la pubblica amministrazione sono diventati i più indagati.
Con aumento geometrico di incriminazioni. La violenza del processo penale
accusatorio e la spettacolarità della indagine preliminare hanno
fatto il resto.
Si può discutere se la percezione del delitto e quindi la necessità
di procedere abbia sempre preceduto le indagini, oppure se queste siano
state iniziate qualche volta senza veri indizi. Discussione che appartiene
agli storici. Il dato attuale è che la politica intende limitare
la discrezionalità che ha consentito il dispiego di una energia
così estrema per mettere il controllo giudiziario dentro una maggiore
prevedibilità. Credo che l’anno che viene vedrà alcune di
queste riforme. Ma temo che esse continueranno ad essere discusse soprattutto
per gli aspetti più strumentalizzabili piuttosto che con riferimento
ai loro contenuti. Lo dimostra, tra l’altro, la vicenda dell’art. 513 del
codice di procedura penale.
3) Il processo accusatorio si distingue da quello inquisitorio perché
il giudice del dibattimento ricostruisce una specifica vicenda. Accusa
e difesa collaborano a questa ricostruzione. Perciò la prova dei
fatti si forma nel dibattimento, mentre quello che è avvenuto prima,
anche durante le indagini del pubblico ministero, non è ancora processo.
Per diventarlo deve entrare nel dibattimento. Allora una dichiarazione
fatta durante le indagini, al pm oppure ad un poliziotto, non è
prova. Lo può diventare se viene ripetuta davanti al giudice e da
questi viene esaminata dentro tutto il quadro ricostruttivo.
Senonché a questo disegno della legge si è sovrapposta
la realtà dei processi di mafia nei quali vi è il problema
delle accuse fatte al pubblico ministero, ma non ripetute in dibattimento
per le ragioni più varie. Incluso il timore di una vendetta. Per
questo si pensò da parte della Corte costituzionale, con una prima
sentenza, di valorizzare il principio di ragionevolezza della legge, in
base al quale non si può sprecare l’attività posta in essere
con l’acquisizione di una prova durante le indagini preliminari.
Così la Corte cancellò la legge che non consentiva di utilizzare
le dichiarazioni fatte agli investigatori e non confermate in dibattimento.
Il risultato fu un mostro giuridico. Un imputato accusava a sua volta
un’altra persona. Quindi patteggiava la sua pena ed usciva di scena, rifiutando
di sottoporsi ad un controesame da parte del suo accusato. Il quale poteva
essere condannato senza nemmeno guardare in faccia chi testimoniava contro
di lui. Cosicché il patteggiamento assumeva oggettivamente il significato
di un premio per una delazione senza responsabilità.
La rivolta di giuristi e di politici portò il Parlamento a votare
la inutilizzabilità delle dichiarazioni non riscontrate al controesame.
Ma la Corte costituzionale ancora una volta investita del problema ha fatto
un salvataggio delle dichiarazioni di accusa, stabilendo che possono essere
utilizzate in dibattimento, previo esame dialettico dei relativi verbali
da parte di accusa e difesa. Evidente il compromesso, ed ovvie le perplessità.
Il rapporto con il Parlamento
Ma il punto non è l’analisi della tesi della Corte costituzionale.
Il problema è anzitutto il rapporto tra la Corte stessa ed il Parlamento,
al quale solo spetta di fare le regole. Nella tormentatissima vicenda dell’art.
513 è emersa la mancanza della autorevolezza necessaria da parte
del legislatore. Un problema di funzionamento della democrazia, messo con
forza addosso all’anno nuovo, che sarà difficile eludere ancora.
Questa sentenza, inoltre, ha fatto esplodere le contraddizioni del
processo penale ed il disagio degli avvocati. Perché siccome il
difensore nel rito accusatorio dovrebbe cooperare alla ricostruzione dei
fatti, una prova che si forma su verbali scritti durante l’indagine, si
forma in realtà fuori del processo. Si forma qualche volta
dentro una caserma, dentro un carcere. Lasciando all’avvocato il ruolo
secondario del critico impotente. Il contrario di ciò che il rito
accusatorio doveva realizzare.
4) Ma la questione del 513 non è isolata nel panorama delle
cose che l’anno vecchio ci lascia. Anzi mi pare figlia di un atteggiamento
culturale diffuso, fuori e dentro il Paese. Come dimostrano due casi apparentemente
lontani, come la vicenda Ocalan e l’arresto in Inghilterra del generale
Pinochet. Il capo del Pkk, comunque sia entrato in Italia, non può
essere mandato in Turchia. Non può nemmeno essere mandato in Germania,
Paese che ha emesso un mandato di cattura, perché non è stata
chiesta l’estradizione. L’Italia perciò si è trovata nella
situazione tragicomica di avere arrestato un ricercato per regolare mandato
emesso da altri, e di non sapere che farne, dal momento che troppe ragioni
escludono di dargli l’asilo politico. Si è pensato ad una corte
internazionale che dovrebbe giudicare Ocalan, ancora non si sa dove. Tuttavia
una corte internazionale ad hoc è un giudice creato apposta per
un certo delitto, dopo che questo è stato commesso. E soprattutto
sulla base di una norma penale essa stessa tutta da fare per l’occasione.
Insomma, prima si arresta, poi si fa la legge che punisce e si inventa
il giudice che la applica. Ridicolo, se non fosse un bruttissimo sogno.
Perché in questo modo si rinuncia ad un canone di civiltà
che impone di non far giudicare se non da un giudice precostituito al reato,
e sulla base di una norma a sua volta precedente il fatto commesso. Questo
canone fu già abbandonato con il processo di Norimberga. Ma in quel
caso si volle fare un giudizio privo di base giuridica perché vi
era la necessità di fare conoscere al mondo, che ancora voleva ignorare
i campi di sterminio, l’orrore del nazismo. Dunque la rottura della logica
giuridica aveva una ragione che il mondo oggi non discute più.
Io non ho simpatia per il signor Ocalan. Ma temo che sia pure per risolvere
una esigenza sostanziale forte, prima che per ragioni pratiche l’idea cadesse,
abbiamo rischiato di gettare a mare in modo distratto una garanzia formale
che segna la distanza tra la giustizia della legge e quella della piazza.
Così per Pinochet. Il quale è un dittatore che merita la
condanna della storia e, per ciò che ha fatto nel suo Paese, la
punizione più severa. Tuttavia, che un giudice spagnolo, organo
di uno Stato che ha fatto morire Franco nel suo letto, possa processarlo
in Spagna per genocidio, delitto atroce che dovrebbe essere giustiziato
in Cile e dai cileni, è cosa che sbalordisce chi tenta di ragionare
sulla base delle regole. E che si spiega solo con la considerazione dei
fatti che si imputano a Pinochet, la cui gravità fa apparire la
regola giuridica un impaccio. Il processo non deve dire se può essere
condannato. Il processo deve esemplarmente condannarlo.
La mafia è uno straordinario problema, vitale per la sopravvivenza
della nostra economia dentro la concorrenza europea. Non si può
consentire che una prova, comunque assunta, si sprechi per un lusso come
il diritto di difesa. Il processo, insomma, non deve creare impacci ad
una alta, nobile, serie, ragione di Stato.
Il problema dell’equilibrio tra sicurezza e garanzia il 1999 se lo
troverà in grembo, reso più cattivo dalla transizione. Perché
è arduo per la gente comune riuscire a pensare che solo Dio, oppure
un despota, possono dire chi merita una pena senza fare un processo vero.
Ma questa scelta tutta politica la stessa gente comune dovrà imparare
a farla molto presto. Io temo molto che a forza di sentenze, di mediazioni
raffinate sulla base della ragion di Stato, si cambi la struttura della
nostra democrazia senza che i partecipi ad essi ne sappiano molto. E temo
che l’uso spregiudicato dei pretesti e degli accidenti della cronaca giudiziaria
al posto delle ragioni, certamente più difficili da percepire, continuerà.
5) Il disagio che mi pare di cogliere è stato espresso in questo
anno dagli avvocati. Il cui ruolo sta cambiando con rapidità che
forse impedisce qualche correzione in corso d’opera. Nelle ultime settimane
la protesta contro la sentenza della Corte costituzionale sull’art. 513
ha scosso la politica, inducendo un tentativo di mettere in costituzione
una norma che assicuri il diritto di controinterrogare il proprio accusatore
da parte dell’accusato. Abbastanza esagerato come rimedio, perché
le costituzioni non possono portare norme così specifiche senza
contraccolpi incontrollabili sul sistema. Ma questo canone di fare
leggi non è conosciuto ai presentatori della innovazione costituzionale.
Semplicemente l’iniziativa ha un valore che va oltre la questione processuale.
Essa rappresenta un tassello con cui il cammino interrotto dalla caduta
della bicamerale può riprendere. Perché la maggioranza di
due terzi del Parlamento potrebbe aiutare a cambiare la legge elettorale
prima che la scimitarra del referendum fracassi l’esistente e metta tutti
contro tutti. Perciò l’innovazione processuale e le nobili ragioni
che si invocano sono, come sempre, secondarie. Questo è il
problema più grosso che il 1998 ci lascia, e che a sua volta aveva
ereditato dagli anni di mani pulite che lo hanno preceduto. Il fatto è
che le questioni della Giustizia assumono una centralità abnorme
che ne rende impossibile la trattazione pienamente consapevole. La kermesse
popolare cui dà luogo qualunque processo che tocca la politica,
con tifoseria schierata a sostenere colpe ed innocenze di cui nulla sanno,
è la dimostrazione della tendenza a superare il processo. Per mettere
al suo posto la considerazione sostanziale di qualunque vicenda e di qualunque
persona. Un atteggiamento al quale la politica per prima si è abbandonata,
quando l’onda di mani pulite sembrava irresistibile, ma che non ha futuro
democratico.
I patriottismi di professione
Dunque l’anno che viene deve affrontare il problema di una distinzione
visibile, dentro la logica della politica, delle sue proprie ragioni da
quelle che servono al giudice. Deve affrontarlo, ripeto, perché
lo stress che la democrazia sta subendo dalla sovrapposizione confusa di
due logiche troppo diverse non è più tollerabile. E molto
dovranno fare i professionisti della Giustizia. Cioè i magistrati
e gli avvocati, lasciando da parte i rispettivi patriottismi di professione.
I primi debbono comprendere che nulla può più essere
come era prima di mani pulite, cioè la domanda che sale verso gli
organi dello Stato di rispondere per i risultati di ciò che fanno
non fa sconti a nessuno. La magistratura gioca la sua autonomia e la sua
indipendenza sulla capacità di diventare un autentico meccanismo
solver problems. La resistenza al cambiamento, che riguardi l’introduzione
del giudice unico o le garanzie penali, finisce con l’identificarsi con
il rifiuto di dare risposta alla domanda di certezza del diritto, di legalità
dei traffici, di tutela dell’arbitrio. Mani pulite sarà ricordata
come un grande merito dei magistrati solo se ad essa seguirà l’amministrazione
della Giustizia efficiente e prevedibile come dato di normalità.
Gli avvocati debbono affrontare la sfida dell’Europa. Tutto l’impianto
tradizionale sul quale la loro professione si basa è in discussione.
Le società di professionisti, l’abbattimento della tariffa come
strumento coercitivo, il cambiamento della funzione degli Ordini, la concorrenza
come regola dei professionisti in quanto soggetti economici, imporranno
un adeguamento impressionante. Non invidio chi fa l’avvocato perché
credo che tante avvisaglie, legislative e giudiziarie mostrano che il 1999
costringerà ad affrontare il nuovo che viene. Ed i cittadini, il
sistema delle imprese, i diritti, insomma, hanno bisogno della avvocatura
perfettamente attrezzata alla domanda di cultura e di efficienza che i
concorrenti europei ci propongono. Forse proprio la crisi dei giuristi
che io vedo ci aiuterà a trovare il propellente che serve.
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