È
mancata l’opera di moralizzazione
da Il Mattino del 28.1.99
Laura Triassi *
Tangentopoli è stata a mio avviso, almeno in principio, la risposta
giudiziaria, finalmente, all’Italia degli scandali.
Sì, perché il Bel Paese, spacciato per la patria del
diritto, si è confermato, invece, il regno ove uomini di potere,
espressione di un’insana partitocrazia, saccheggiavano il pubblico danaro
e portavano a casa il oro ricco bottino.
Vogliamo visualizzare l’Italia degli scandali? Per difetto possiamo
solo ricordare: le banane, il tabacco, l’aeroporto di Fiumicino, il petrolio,
gli ospedali, le autostrade, la Lockeed, la Federconsorzi, le lenzuola
d’oro, il Belice, l’Irpinia, l’Ambrosiano, i fondi neri dell’Iri, le ferrovie,
le industrie farmaceutiche, etc. etc.
Non c’è settore della pubblica economia scampato alle indagini,
quanto meno sul tentativo di ingorde e illecite suzioni.
Tangentopoli ha avuto il riconosciuto merito di affondare le sue mani
in questo marcio sistema italiano ed è stata accolta da plauso e
manifestazioni di piazza contro i corrotti e le clientele.
Questo, però, accadeva all’inizio.
Ben presto il fenomeno giudiziario che, in nome del principio di legalità
metteva le mani negli scandali e colpiva la corruzione anche a livelli
più alti, affievolitasi l’ondata di entusiasmo, perdeva filo nelle
maglie dell’inquinato tessuto italiano.
Il popolo dei furbi e dei potenti, cui certo non mancavano i mezzi
per farsi sentire, trovava i suoi sostenitori.
Così le inchieste sui ladri di Stato, sui corrotti e sulle concussioni,
venivano insinuate nell’immaginario di molti come il «complotto delle
Procure» contro certi personaggi; la rivoluzione di alcuni giudici
per abbattere la classe dirigente e far posto a chi «manovrava»
nell’ombra.
Così, maliziosamente, si davano in pasto all’opinione pubblica
casi, veri e non, di cosidetta malagiustizia; molti degli inquisitori diventavano
inquisiti, soggetti sulla cui vita privata occorreva scavare perché
di certo qualche «peccatuccio» su cui speculare sarebbe venuto
fuori. E se non emergeva nulla, poco male! L’importante era insinuare il
dubbio sulla genuinità delle inchieste per far passare la canea
contro il blaterato «strapotere del PM», contro la «violazione
dei diritti della difesa» e spianare la strada alle riforme sulla
giustizia.
Ma quali riforme?
Quella che propone depenalizzazioni, patteggiamenti, amnistie e roba
del genere per chiudere Tangentopoli?
Quella della «separazione delle carriere» perché
l’unico problema è l’autonomia del PM?
Quella di stravolgere la composizione del CSM per un più incisivo
controllo della magistratura?
Quella che tende a eliminare la custodia cautelare per alcuni reati?
O quella, finalmente, rivolta a rendere l’apparato giudiziario efficiente
e, soprattutto immune dai pesanti condizionamenti di chi, ad arte, disponendo
dei necessari mezzi riesce a confondere le idee sull’operato giudiziario?
Ma quest’ultima riforma non è all’orizzonte. Nel frattempo era
più urgente trovare il modo di foraggiare i partiti ed il clima
era maturo per far rientrare nelle casse quei miliardi che sembravano definitivamente
persi dopo il referendum.
Ed allora, se alla fine di Tangentopoli i processi versano in uno stato
sconfortante di immobilismo, in attesa di prescrizione dei reati o di soluzioni
che li spazzi via in maniera indolore; se i fax e le fiaccole dei sostenitori
si sono spenti e se l’obiettivo di fare chiarezza e giustizia sugli scandali
del nostro paese sembra più evanescente, corrotto dall’insidioso
dubbio sulla legittimità dell’azione giudiziaria, si può
solo registrare che, all’impegno della magistratura, che certamente ha
fatto la sua parte dimostrando il sistema di corruttela imperante, non
ha fatto seguito la capacità né di completare il ciclo giudiziario
iniziato con tangentopoli, né di compiere una radicale opera di
moralizzazione della vita pubblica. Persa quest’occasione, la lotta alla
corruzione continua come prima.
*giudice per le indagini preliminari
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