Ma
c’è sempre chi aspetta un processo
da Il Mattino del 28.1.99
Benito Visca *
La riflessione che il giudice Nicola Quatrano ha dedicato al fenomeno
di Tangentopoli sulle pagine de «Il Mattino» merita qualche
approfondimento, in parte già avviato dal giornale attraverso una
serie di interventi, che affronti tuttavia la questione ricollocandola
nel suo contesto più complessivo. A tal fine vorrei proporre qualche
interrogativo.
1) Qual è lo stato della giustizia in Italia? È vero
che il 50 per cento circa di chi è in prigione aspetta ancora un
processo (si badi bene, non si parla di condanna) e che i processi (quelli
penali, che sono i più veloci, quando naturalmente si celebrano)
durano minimo cinque anni, senza calcolare la fase istruttoria?
2) È vero che la magistratura denuncia scarsissima professionalità
e ancora più scarsa intelligenza nella prevenzione dei reati e nel
perseguimento della criminalità, soprattutto nel Mezzogiorno?
3) È vero altresì che l’improntitudine con la quale talvolta
(forse fin troppo spesso) si imbastiscono i processi finisce col creare
una situazione in cui i processi non si celebrano perché «nessuno
- come afferma Claudio Botti - Pm ed imputati compresi, ha realmente interesse
ad una seria verifica giurisdizionale»?
4) Questo stato di cose era preesistente a Tangentopoli come tutto
fa intendere, o è successivo alla sua nascita?
E come è possibile che una magistratura sprovveduta, male organizzata,
scarsamente avvertita, poco propensa a celebrare i processi abbia potuto
dare l’avvio ad un fenomeno, sia pure riferito solo ad un «ricambio
di classe dirigente», paragonabile al colpo di stato fascista e alla
Resistenza? Forse ha ragione il giudice Bruno D’Urso quando sostiene che
era talmente diffuso il criterio (della illiceità e della corruzione)
«che è bastata una sola pedina, quel Mario Chiesa, e sono
bastati un Pm e un Gip sceriffi, che hanno fatto un uso fin troppo disinvolto
dei mandati di cattura, per fare crollare l’intera impalcatura di Tangentopoli».
Ma torna d’attualità quanto ancora il giudice Quatrano dichiara,
e cioè che «quelle stesse inchieste che hanno prodotto conseguenze
definitive sul piano politico» sembrano aver prodotto scarse conseguenze
sul piano giudiziario: «La Magistratura - egli afferma - resta forse
l’unica articolazione dello Stato a non aver subito profondi rivolgimenti»,
e l’affermazione fa nascere problemi inquietanti, perché ripropone
il pericolo di una ricaduta in fenomeni di «inciviltà giudiziaria»
ampiamente sperimentati, e pericolosissimi per la vita democratica del
nostro Paese.
Tornando al punto, e fin troppo evidente che Mani pulite è esplosa,
con tutte le note conseguenze, per la corruzione dilagante, per l’ostentazione
del più vieto esercizio del potere, per la confusione cronica tra
partiti (non solo quelli di governo) e Stato e tra interessi privati e
istituzioni: una miscela ormai in equilibrio instabile, che unita al giustizialismo
opportunistico di alcune forze politiche, che miravano a farsi riconoscere
classe dirigente tramite magistratura e per mezzo della carcerazione, e
alla richiesta di una giustizia qualsiasi da parte di un’opinione pubblica
esasperata, è diventata il contesto più favorevole agli interventi
della magistratura, ma anche la condizione per il suo uso «politico».
I fatti internazionali hanno fatto il resto.
Ma le ulteriori domande che naturalmente si pongono, portano a chiedersi
ancora: l’azione di Mani pulite è servita a migliorare la vita dei
partiti, a ridurre i margini di discrezionalità di chi esercita
il potere, a creare migliori condizioni per la partecipazione attiva dei
cittadini alle decisioni politiche?
E per altri versi, a riconoscere merito a quei magistrati che compiono
il loro dovere ed a garantire non una giustizia qualsiasi, ma una vera
giustizia?
Le risposte sono scontate, e la conclusione non può essere che
una sola o che Mani pulite deve purtroppo registrare un netto fallimento
della sua azione, o che quell’azione deve considerarsi incompiuta.
* Ex presidente della lega delle cooperative
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