Rimuovere
le cause del fenomeno
da Il Mattino del 28.1.99
Alfonso Furgiuele*
Il fenomeno cosiddetto di «tangentopoli» potrebbe essere
esaminato sotto molteplici profili ma, probabilmente, solo il tempo ed
un’attenta opera di ricerca storica consentiranno di far piena luce sulle
sue reali connotazioni. In questo momento appare realmente arduo e forse
frutto di presunzione azzardare giudizi; specialmente ove non si disponga
di strumenti necessari per cogliere il significato profondo di un fenomeno
che ha trovato la sua genesi nella storia dell’Italia repubblicana e su
di essa ha finito per incidere modificandone l’assetto politico.
Tuttavia, è sufficiente già questa osservazione per affermare
che quello di tangentopoli non può essere definito un fenomeno tout
court giudiziario. D’altro canto, non credo che mai l’intervento dell’autorità
giudiziaria possa svolgere un ruolo propulsivo rispetto all’andamento delle
vicende storiche e sociali; sembra vero piuttosto il contrario e cioè
che la macchina repressiva della giustizia si metta in moto quando per
ragioni storiche - e quindi culturali, politiche ed economiche - un determinato
equilibrio sociale entri in crisi. La giustizia, dunque, rappresenterebbe
soltanto uno dei possibili strumenti cui si è storicamente ricorsi
per realizzare una «rivoluzione» di natura politica.
Per comprendere ciò, con specifico riferimento all’insorgere
del «caso tangentopoli», si può prestare attenzione
a due circostanze: il dilagare della corruzione nella politica e nella
pubblica amministrazione era sotto gli occhi di tutti già molto
prima del fatidico 1992; l’azione penale è sempre stata obbligatoria
a norma dell’art. 112 della Costituzione. Eppure per lungo tempo non è
sorto alcun procedimento penale che arrivasse a colpire coloro che reggevano
le sorti nazionali della politica, della pubblica amministrazione e dell’economia.
Né si può dire che mancassero i mezzi o le opportunità,
dal momento che fino al 1989 è stato in vigore un sistema processuale
penale misto (e non di stampo accusatorio e garantista come quello attuale)
che consentiva ampi poteri inquisitori agli uffici del pubblico ministero.
Infatti, sarebbe stata sufficiente un’indagine sulle risorse patrimoniali
utilizzate per le miliardarie campagne elettorali ovvero sul «giro»
di fatture fittizie creato dagli imprenditori per far ricadere sull’erario
il costo delle «tangenti», per accertare giudiziariamente ciò
che tutti già sapevano.
Con tali osservazioni non intendo affatto sminuire i meriti di quei
magistrati che con tanto impegno hanno indagato ed agito per la repressione
degli illeciti commessi, ma voglio solo dire che appare velleitario o,
peggio ancora semplicistico, illudersi che questi interventi, in via di
supplenza, dell’autorità giudiziaria possano, da soli, impedire
realmente il ripetersi di fenomeni corruttivi.
Oggi si discute molto di «colpi di spugna» - da realizzarsi
con l’amnistia, l’indulto o attraverso meccanismi più complessi
- per porre fine a quei processi che, di fatto, appaiono essere diventati
ingestibili e paralizzanti per l’intero apparato. Ciò perché
l’aspetto giudiziario di «tangentopoli» è diventato
«ingombrante» per le strutture, mentre all’opinione pubblica
non sembra interessare più la sorte di quei «potenti»
di ieri che, ormai spodestati, vagano nei vari tribunali italiani come
fantasmi alla ricerca dell’aula di giustizia nella quale vedranno rievocati
i loro fasti e le loro miserie.
Io dico che la giustizia deve fare il suo corso, ma non se ne deve
enfatizzare la funzione. Nel senso che la condanna dei colpevoli di ieri
non può e non deve appagare; piuttosto l’analisi giudiziaria di
quel fenomeno deve servire da strumento per l’individuazione delle reali
cause che l’hanno generato, onde approntare i mezzi adatti per la realizzazione
di una valida politica di prevenzione.
Nella mia veste di studioso e operatore del processo penale non posso
esimermi da un’ultima osservazione. Senza porre in discussione gli innegabili
meriti della magistratura, si deve però rilevare che la «guerra
di religione» combattuta dalle Procure e, ahimè, da tanti
giudici con il coinvolgimento dell’opinione pubblica, ha portato alla disapplicazione
di alcuni dei principi ispiratori del codice di procedura penale dell’88.
Lo stravolgimento dell’intero sistema processuale è stato aggravato
da una serie di interventi della Corte Costituzionale, legata alla cultura
tipicamente inquisitoria del vecchio codice, e del legislatore, che si
è mosso ancora una volta in quella logica emergenziale che ha caratterizzato
la legislazione italiana dal dopoguerra in poi.
Tutto ciò appare certamente inquietante e non si può
escludere una ricaduta destabilizzante sul sistema giustizia, destinata
ad andare ben oltre l’epilogo dei processi cosiddetti di «tangentopoli».
*penalista
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