Caselli: il carcere deve poter aiutare i tossicodipendenti

da Il Corriere della sera del 28.6.99

All'indomani della Giornata mondiale dell'Onu contro gli stupefacenti, riceviamo dal procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli, nella sua qualità di nuovo direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria, una riflessione proprio su uno dei fronti più esposti dell'emergenza droga: le carceri, appunto 
Al 28 febbraio 1999 gli istituti penitenziari, in Italia, erano 258 (tre in meno dell'anno precedente). La capienza «regolamentare» era di 43.117 reclusi; quella «tollerabile» di 48.000. I detenuti presenti erano invece 49.532: insomma, anche le cifre più recenti ci dicono che la situazione penitenziaria è difficile. Anche (ma non solo) per il sovraffollamento. Ormai da parecchi anni, il maggior fattore di incremento degli ingressi e delle presenze in carcere è costituito dalla tossicodipendenza, che sta dunque alla base del sovraffollamento. Fenomeno che condiziona negativamente la «qualità del lavoro» degli operatori penitenziari e nello stesso tempo la «qualità della vita» delle persone detenute (espressione - «qualità della vita» - da usare con riguardo, essendo la libertà precondizione assoluta per parlare di qualità dell'esistenza). 
Un forte segnale di preoccupazione che viene dalle carceri è perciò legato al gran numero di tossicodipendenti. Al 31 dicembre '98 essi erano 13.567 su 47.560 presenti, vale a dire quasi il 30%. E' un volto del carcere fortemente inquietante, rispetto a cui ancora oggi si fa troppo poco, e questo nonostante le proposte e le indicazioni venute dalla conferenza triennale sulle tossicodipendenze (due anni e mezzo fa!), mai tradotte in modifiche legislative e nuove opportunità. 
Si dirà: chi commette reati, deve risponderne. Ed è non solo giusto, ma anche necessario. Fermo questo dato inderogabile, occorre però riflettere su un altro, altrettanto imprescindibile, dato: ed è che praticamente tutti i reati commessi da tossicodipendenti sono reati inestricabilmente legati alla loro condizione e alla necessità di procurarsi le sostanze. Il che significa che accanto a un'esigenza di punizione, c'è un problema di aiuto. 
Io non ho (come dovrebbero evidenziare i miei percorsi professionali) particolare compiacenza verso chi infrange la legge. Ma mi chiedo - e vorrei chiedere a tutti -: è davvero utile (e giusto) che persone da punire, alle quali però serve anche, se non soprattutto, aiuto, finiscano in celle dove (per i fattori più diversi) risultano gravemente ridotti i percorsi finalizzati al reinserimento? Non sarebbe più utile (e giusto) lavorare per un carcere che sia anche «carcere della speranza», ispirandosi a una filosofia della pena tesa al recupero e non all'avvilimento del condannato? 
Io credo che se una parte della società (che ha violato la legge e va punita, ma l'ha violata perché prigioniera di situazioni particolari sulle quali si può provare a incidere) viene condannata a perdere - insieme alla libertà - anche la speranza, sarebbe la collettività nel suo insieme (saremmo tutti noi!) a smarrire la propria speranza, vale a dire la capacità di crescere e migliorare. 
Legittimamente la società si attende dalla carcerazione una funzione di rassicurazione. Ma deve farsi strada l'idea che l'investimento di risorse nel recupero del condannato rappresenta (oltre che un dovere di solidarietà scritto nella Costituzione) anche un concreto investimento in termini di sicurezza, di attenuazione della recidiva, di riduzione del tasso di violenza nelle città, di maggior tranquillità sociale. Un fattore del quale è possibile misurare la ricaduta positiva anche in termini economici. 
Il carcere si trova a gestire realtà sociali e sanitarie che spesso poco o nulla dovrebbe avere a che fare con la reclusione. La tossicodipendenza ne è l'aspetto più macroscopico. L'amministrazione penitenziaria (agenti, direttori, educatori, assistenti sociali, volontari, cappellani, personale medico) compie sforzi generosi per gestire, con poche risorse, una situazione assai complicata, assumendosi compiti e fatiche ben al di là delle proprie competenze. Ma il carcere davvero riabilitante è quello che si apre alla società e nel quale la società assume un ruolo attivo. Senza limitarsi a scaricare problemi che la società non riesce o non vuole risolvere (o che spesso, addirittura, non vuole nemmeno vedere). Senza un corretto rapporto con la società, è illusorio pensare che la pena possa «salvare» - oltre alla sua funzione - la società stessa. Conviene quindi alla società occuparsi del carcere, e dei carcerati tossicodipendenti in modo particolare: per difendersi e «salvarsi» in modo solidale e al tempo stesso intelligente, capace cioè di operare non solo sugli effetti ma anche sulle radici di un fenomeno, così da ridurne la portata, con vantaggi sociali immediati ed evidenti. 
di GIAN CARLO CASELLI