Licenza di palpeggiare 

da L'Espresso 

di Chiara Valentini 
Che cosa mai dovrà fare d'ora in poi una donna per convincere un tribunale a condannare il suo molestatore? Probabilmente alle malcapitate vittime di pizzicotti sul sedere e ricatti sul lavoro non resterà altra strada che riuscire a farsi molestare direttamente sotto gli occhi austeri dei giudici. Come risulta da due recenti sentenze, qualunque testimonianza di compagni di lavoro, qualunque referto medico, qualunque nastro registrato può servire a sollevare qualche sospetto, ma non a perseguire il colpevole.
È ai limiti del paradosso il caso di A.M., una ragioniera di quasi 50 anni, segretaria amministrativa in una stazione ferroviaria di Roma. Qualche anno fa, di ritorno dalle vacanze, A.M. aveva cominciato a ricevere complimenti pesanti dal capo settore della stazione. Questo omone di più di 100 chili, noto per il cattivo carattere e l'aggressività, aveva cominciato il cosiddetto corteggiamento lodando le caratteristiche fisiche della sua dipendente («Quanto sei bona, con quel culo che hai potresti avere molti vantaggi»). Per un po' non aveva perso occasione per palpeggiarla e infastidirla con frasi oscene («Sei diversa da tutte, non sei una fregna molle...»), fino a saltarle addosso infilandole le mani nel reggipetto. Ma siccome A.M. aveva continuato a respingerlo, si era vendicato spostandola a lavorare da sola in una specie di cantina. Non contento, quando la donna era entrata nel suo ufficio a chiedere spiegazioni l'aveva accolta gridando «Sei una troia, non conti un cazzo» e l'aveva presa per il collo fin quasi a soffocarla, provocandole lesioni guaribili in una ventina di giorni (lei a sua volta si era difesa graffiandolo sulla faccia). Condannato in primo grado, pochi giorni fa il molestatore violento veniva improvvisamente assolto dalla Terza sezione penale della Corte d'Appello di Roma. Dopo essersi soffermata sul «carattere non certo remissivo» di A.M., la corte si chiedeva perché la donna, dopo l'inizio delle molestie, aveva continuato ad avere rapporti di lavoro con il molestatore, entrando sola nel suo ufficio: come se un dipendente potesse scegliere i propri superiori o aggirarsi nel luogo di lavoro con la scorta. Per concludere, con una logica non proprio cartesiana, che se da un lato era «probabile» che i fatti si fossero svolti come da denuncia, dall'altro era anche possibile che tutto quanto fosse un «elaborato fantastico» di A.M. 

E mentre il molestatore assolto chiedeva un risarcimento di un miliardo per i danni alla propria immagine, scendeva in campo, con una lettera aperta al Csm e al ministro Diliberto, l'associazione Assolei-Sportello donna, che aveva seguito passo passo la vicenda. Secondo Irene Giacobbe, la battagliera sindacalista che dirige l'associazione, «la Cassazione deve cancellare questa infamia.Se questa sentenza, non meno grave della famosa sentenza dei jeans,non sarà cancellata, le donne potranno aspettarsi qualunque cosa ». Le faceva eco da Como Grazia Villa, avvocata difensore di un'altra molestata rimasta con un palmo di naso. Si tratta della giovane donna assunta come segretaria da un industriale metalmeccanico regolarmente sposato che, con la scusa di essersi follemente innamorato, l'aveva perseguitata per mesi con approcci e profferte, provocandole un grave esaurimento nervoso (ma quando lei era rimasta a casa in malattia le aveva sospeso lo stipendio e poi si era rifiutato di pagarle la liquidazione). Anche se l'impiegata era riuscita a registrare su un nastro la voce del capo che ammetteva: «Ti ho accarezzata, ti ho baciata ma l'ho fatto per amore», il caso veniva chiuso dal magistrato con il sorprendente argomento che «fra gli interessati vi è stato un principio di relazione sentimentale, o per lo meno un tentativo in tal senso ad opera dell'indagato». Alla faccia della libertà di scelta femminile.

«Amareggiata, ma non poi tanto meravigliata», si dichiara l'avvocata Villa, specialista di diritto del lavoro che si è sentita raccontare centinaia di casi di molestie dalle operaie tessili della sua zona, ma che finora non è mai riuscita a far condannare un molestatore. La richiesta di sesso in cambio di assunzioni o di carriera è rimasta a lungo nel limbo del non detto, considerata più un rischio o un pedaggio da pagare che un diritto violato.

E anche fra molte donne faceva presa l'idea che portare in tribunale storie di conflitti fra i sessi facesse rischiare quell'eccesso di politically correct che si rimprovera agli Stati Uniti. «In realtà la situazione è ben diversa. Non potremo mai parlare di parità sul lavoro fra uomini e donne finché il tema delle molestie, che non hanno niente a che vedere con i flirt o le seduzioni d'ufficio, non sarà affrontato e regolato», dice Linda Laura Sabbadini, la dirigente dell'Istat a cui si deve la prima grande ricerca italiana su molestatori e molestate.
 
 

IDATI Istat ci dicono che negli ultimi tre anni le italiane molestate sono state il 24 per cento. Ma se si considera tutto l'arco della vita si arriva al 51,9, cioè a più della metà dell'intera popolazione femminile. Ovviamente solo una parte di queste molestie si svolge nei luoghi di lavoro, e solo una parte ancora più piccola arriva nei tribunali. Rende difficile fare questa scelta il fatto che da noi non esista ancora nessuna legge specifica per il reato di molestie. Una proposta di legge che ha come primo firmatario Carlo Smuraglia, dopo essere stata approvata nel '96 al Senato giace sepolta in commissione alla Camera e nessuno sembra ansioso di riportarla alla luce. 

«Nelle denunce ci attacchiamo, a seconda dei casi, alla violenza privata o alla molestia semplice, all'ingiuria, perfino alla concussione. Ma l'impreparazione e i pregiudizi dei giudici in materia sono enormi e le stesse sentenze della Cassazione spesso sono contraddittorie», dice l'avvocata romana Simonetta Massaroni. Un esempio sono due diverse sentenze in materie di baci. Nel '95 la Cassazione aveva decretato che i baci «sulla fronte e sul collo» non costituiscono atti sessuali (mentre lo sono il «bacio sulla bocca e quello profondo, il toccamento non fugace dei glutei e della mammella»). L'anno scorso, invece, un'altra sezione della Cassazione ha confermato una sentenza di condanna a un sessantacinquenne napoletano che aveva afferrato una ragazza gridando «Amore, amore» e l'aveva baciata su una guancia. Si era trattato di un'eccezione. Un altro caso recente di condanna riguarda un dirigente della Romana Recapiti, che aveva tormentato due donne delle pulizie di 40 e 50 anni, obbligandole a pulire scritte oscene nei bagni e a lucidare la sua scrivania sporca di sperma.

Ma in genere le cose vanno diversamente. È esemplare l'assoluzione di un dirigente della Regione Lazio che aveva importunato ben nove dipendenti, fra cui due uomini, costringendoli a guardare foto porno. «Sette testimonianze non hanno potuto nulla», dice Irene Giacobbe. In compenso il primo provvedimento che in genere prendono le aziende contro chi denuncia le molestie è il licenziamento. Franca Bozzetti, responsabile del Centro donna della Camera del Lavoro di Milano, sostiene che questa regola, specie nelle aziende private, conosce poche eccezioni. «Quando va bene il pretore liquida un po' di soldi per la vittima. Ma in genere si tratta di cause che vanno avanti anni. Per non rinunciare ci vuole una tenacia che non tutte hanno».

Come se non bastasse, spesso il molestatore denuncia a sua volta la vittima per scarso rendimento sul lavoro, per insubordinazione o addirittura per molestie. Una vigilessa di Modena aveva accusato un compagno di lavoro che s'era avvicinato «con i pantaloni abbassati e in atteggiamento inequivocabile»: «La collega mi provoca, è perversa», aveva controdenunciato lui. Forse era perfino in buona fede, convinto che una donna che fa un mestiere maschile debba essere per forza disponibile. E chissà se la definizione di molestia accettata in tutt'Europa -«ogni comportamento a connotazione sessuale non desiderato da chi lo subisce»- basterebbe a fargli capire che il mondo sta cambiando. 
(01.04.1999)