In Sicilia utili per risolvere gli omicidi «eccellenti» 

da Il Mattino del 29.9.99

FILIPPO D’ARPA 
Palermo. Questa mattina l'avvocato Fausto Coppi chioserà la sua arringa chiedendo l'assoluzione di Giulio Andreotti anche al processo di Palermo. Poi, la richiesta sarà ribadita dal suo collega Gioacchino Sbacchi e - se il calendario sarà rispettato - il prossimo 12 ottobre, il senatore a vita renderà dichiarazioni spontanee. Ovviamente, contro le dichiarazioni degli oltre trenta pentiti che lo accusano di essere stato «lo zio Giulio» a disposizione di boss e picciotti di Cosa Nostra. Pentiti, o meglio collaboratori di giustizia, il nodo del dibattito politico sulla questione giustizia che nelle stanze della procura di Palermo arriva come uno spettro da non evocare. Perché non si trova nessun magistrato disposto a dire - anche i termini generali - qualcosa sui pentiti. Meno che mai, sul processo Andreotti. Si sottolineano appena le differenze tra Perugia e Palermo, ma null'altro. D'altra parte a fine ottobre, ci sarà anche la sentenza emessa dal tribunale presieduto da Francesco Ingargiola, giudice «inavvicinabile» come hanno sempre sostenuto i pentiti. 
Toccherà a lui e agli altri due giudici, stabilire se la somma delle dichiarazioni dei pentiti contro Andreotti vale una sentenza di condanna. Come è avvenuto per la stragrande maggioranza per fatti di mafia svoltisi a Palermo. Da alcuni dati pubblicati dall'Istat, viene infatti, fuori che grazie ai pentiti il 50% dei reati prima contro ignoti sono stati puniti con sentenza di colpevolezza. Negli ultimi dieci anni, inoltre, sono stati scoperti e condannati, autori di delitti di stampo mafioso che prima, erano destinati a restare insoluti. Si pensi, per esempio, ai delitti eccellenti come Dalla Chiesa ('83) Insalaco ('88) o gli omicidi Cassarà e Montana ('85) rimasti insoluti fino alla metà degli anni '90. Con l'avvento del fenomeno del pentitismo, sono arrivate le svolte processuali. Anche se qualcosa, a volte, non sortisce gli effetti sperati. In uno studio pubblicato dal professore Giorgio Chinnici, docente di Criminologia all'Università di Palermo, emerge infatti, che delle 1300 imputazioni per omicidio contestate ai 430 imputati del maxi processo, solo 70 sono state confermate definitivamente in Cassazione. 
I pentiti, sempre per i reati di mafia, hanno inoltre consentito di individuare non solo la struttura e l’organizzazione di Cosa Nostra ma anche le migliaia di adepti prima avvolti nel mistero. Secondo le statistiche Istat rielaborate da Chinnici, il 90% dei reati commessi resta contro ignoti e quindi impuniti. Di quelli scoperti solo il 30% viene condannato. E con i pentiti? Nelle Marche o negli Abruzzi su 600 imputati, 100 sono stati condannati e ben 500 prosciolti dall'accusa di omicidio. A Palermo, su 180, 100 sono stati prosciolti, 80 i condannati. 
Ma c'è un altro dato che fa riflettere: i pentiti «che si pentono nel senso religioso», si contano sulle punta delle dita di una mano, il caso più eclatante fu Leonardo Vitale, dieci anni prima di Buscetta. Ebbe una crisi mistica, non fu creduto e quando uscì dal carcere fu ammazzato. Ancora più stimolante il secondo dato: i pentiti sono un frutto generazionale e della città. Sui 1200 pentiti, 772 hanno una età compresa tra i 26 ed i 40 anni, 402, quelli tra i 41 e i 50, 81 quelli tra i 19 ed i 25 anni. Appena 17 quelli oltre i 50. Questo significa che la vecchia guardia «campagnola» o «viddana» come vengono definiti i corleonesi, non si pentirà mai. Ma perché? «Perché, spiega Chinnici, la mentalità cittadina è utilitaristica, di tipo commerciale: quindi se vengo preso, mi pento perché ci guadagno qualcosa. Non solo, ma i mafiosi di città, rifiutano l'eccesso di violenza perché lo ritengono dannoso per i propri affari». 
Ma lo ricorda il procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra: «senza i pentiti non si condanna. Anche grazie a loro, in un processo con 18 imputati, 14 vengono condannati. Certo, cambia da processo a processo, da collaboratore a collaboratore», ma il prodotto finale è quello. Tutto questo perché è crollato il muro d'omertà che era stato eretto ai tempi dell'Unità d'Italia. Studi storici affermano infatti, che l'omertà in Sicilia si ramificò con l'avvento del servizio militare obbligatorio «imposto dai Piemontesi». Per i siciliani, era come consegnare un figlio alla morte e quindi quando questi doveva partire, tutto il paese sceglieva «il silenzio» quando arrivavano i carabinieri per cercare il coscritto che si era già dato alla latitanza.