L’inutile via dell’emotività
da Il Sole 24 ore del 28.9.99
di Stefano Sepe
«Stati generali» dei responsabili della sicurezza a Roma:
prefetti, questori, comandanti dell’Arma dei carabinieri e dalla Guardia
di finanza convocati dal presidente del Consiglio con la presenza del ministro
dell’Interno. Un conclave dei vertici tanto delle strutture di comando
centrali, quanto di quelle operanti sul territorio. L’obiettivo: risposte
operative sia nel contrasto alla malavita (grande e piccola, organizzata
e "a branchi"), sia nell’opera di intelligence. L’auspicio (conseguente):
che tali risposte guardino oltre il clima da "emergenza" (parola abusata
del lessico politico) creatosi da alcuni mesi in tema di criminalità.
Il 1999 si segnala, infatti, non tanto per la recrudescenza del fenomeno
quanto per l’allarme sociale che esso determina. A ondate, scandite da
episodi più o meno gravi, più o meno odiosi. Bisogni primari
scatenano — si sa — risposte elementari come quella della giustizia "fai
da te". Pulsione e spettro delle società (cosiddette) avanzate.
E come la risacca arrivano le richieste di interventi duri, spesso al limite
del ragionevole e del praticabile (almeno nelle democrazie): licenza di
sparare a vista sui criminali, porto d’armi collettivo per categorie a
rischio. Inevitabile, quindi, che il Governo sia tornato a occuparsene
dopo le misure adottate all’inizio dell’estate.
Con un rischio. Che la preoccupazione di dare, nell’immediato, risposte
"visibili" conduca a soluzioni improvvisate. Esattamente il contrario di
ciò che serve. Serve, invece, ragionare con freddezza. Ricordare
— in un Paese con la memoria sempre troppo corta — che la malavita organizzata
ha radici antiche e solide, che non si sradicano in un sol colpo. Che la
stessa criminalità diffusa (che finalmente quasi più nessuno
definisce "micro") non ha un solo padre, essendo frutto sia del sottosviluppo,
sia dello sviluppo distorto. Sia, infine, elemento collegato a fenomeni
— quali l’immigrazione incontrollata dai Paesi poveri dell’area mediterranea
— che hanno portata epocale.
Certo, di fronte all’infuriare di rapine e omicidi e alla pressione
emotiva dell’opinione pubblica, non è facile neanche per le fredde
intelligenze dei governanti mantenere la calma necessaria. A rendere la
situazione ancor meno facile contribuisce l’opposizione che solleva lo
spauracchio di un Governo pronto a varare leggi liberticide. Proprio per
questa somma di ragioni occorre tenere saldo il timone della razionalità.
Cominciando, per le forze della maggioranza, da un’autocritica. Dolorosa
quanto necessaria. Poco più di un anno fa la legge Simeone — approvata
dalla quasi totalità delle forze politiche — ha, di fatto, regalato
l’impunità a una larga fetta di delinquenti. Con il risultato di
ringalluzzire chi viola le leggi e creare sconforto tra coloro (magistrati
e forze dell’ordine) che combattono quotidianamente la criminalità.
Le proposte annunciate sono tutte condivisibili: migliore controllo
del territorio, effettività delle pene, rafforzamento delle capacità
operative delle forze di polizia.
Obiettivi già altre volte indicati, ma che sono stati raggiunti
in misura parziale. Con una chiara divaricazione fra ambizione dei propositi
e sostanza dei risultati. Affinché l’effetto annuncio non si trasformi
ancora in un boomerang per il Governo occorre tenere presente altri due
aspetti. Di solito in ombra. Il coordinamento delle forze di polizia e
l’efficienza degli apparati. Entrambi sbandierati come indispensabili,
ma non sempre perseguiti con la necessaria coerenza.
L’incontro tra vertice politico e responsabili dell’ordine pubblico
è stata un’occasione utile per mettere a punto misure atte a meglio
fronteggiare il fenomeno della criminalità. Senza dimenticare l’esigenza
di strategie di più largo respiro. Strategie che devono trovare
il loro asse in politiche di sviluppo in grado di togliere agli appartenenti
alla criminalità l’humus a loro favorevole e di evitare a molti
soggetti marginalizzati, ma non criminali, di cadere nelle braccia della
malavita. Scelte politiche impegnative, che — oltretutto — non danno risultati
immediati e non sono perciò spendibili sul terreno del consenso
elettorale. Le uniche, però, che non abbiano corto respiro.
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