Il
Consiglio di Stato estende l’accesso agli atti
da Il Sole 24 ore del 29.4.99
ROMA — La trasparenza non conosce le sottili differenze dei codici.
Dunque, sia che l’attività abbia natura pubblicistica o privatistica,
la pubblica amministrazione deve comunque garantire l’accesso agli atti,
in modo da tener fede al principio sancito dall’articolo 97 della Costituzione
del buon andamento e dell’imparzialità dei pubblici uffici. Principio
che deve essere tenuto ben presente anche dai privati che gestiscono servizi
di interesse pubblico, i quali non possono sottrarsi alle regole sulla
trasparenza fissate dalla legge 241 del ’90.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, chiamata a scegliere tra
una applicazione restrittiva della trasparenza (il diritto di accesso si
applica solo quando l’ufficio esercita con strumenti pubblicistici) e una
estensiva (la regola vale anche quando la pubblica amministrazione agisce
secondo il diritto privato), ha scelto la seconda possibilità. Con
la decisone 4/99 ha risolto il conflitto giurisprudenziale che si era creato
al Consiglio di Stato, affermando che «l’istituto dell’accesso trova
applicazione nei confronti di ogni tipologia di attività della pubblica
amministrazione».
«Ogni attività dell’amministrazione — ha specificato l’Adunanza
plenaria —, anche quando le leggi amministrative consentono l’utilizzazione
di istituti del diritto privato, è vincolata all’interesse collettivo,
in quanto deve tendere alla sua cura concreta, mediante atti e comportamenti
comunque finalizzati al perseguimento dell’interesse generale».
Ed è per questo che l’articolo 22 della legge 241, che disciplina
il diritto di accesso, si applica sempre, anche agli atti di diritto privato.
Proprio perché l’attività amministrativa è «configurabile
non solo quando l’amministrazione eserciti pubbliche funzioni e poteri
autoritativi, ma anche quando essa (nei limiti consentiti dall’ordinamento)
persegua le proprie finalità istituzionali mediante un’attività
sottoposta, in tutto o in parte, alla disciplina prevista per i rapporti
tra i soggetti privati (anche quando gestisca un servizio pubblico o amministri
il proprio patrimonio o il proprio personale)».
D’altra parte, la legge 241 non ha introdotto alcuna deroga «alla
generale operatività dei principi della trasparenza e dell’imparzialità»,
così come non ha garantito «alcuna "zona franca"» nei
confronti dell’attività disciplinata dal diritto privato. Le indicazioni
della legge 241 sono così in sintonia con la recente tendenza di
ridurre il tradizionale divario, che riverbera poi sulla scelta del giudice
a cui affidare i conflitti, tra atti amministrativi autoritativi e di diritto
privato. Pertanto, puntualizza l’Adunanza plenaria, ai fini dell’accesso
non solo non è importante se la disciplina sia pubblicistica o privatistica,
ma neanche se, in caso di contenzioso, ci si rivolga al giudice ordinario
o a quello amministrativo.
Il faro della trasparenza è l’interesse collettivo, quello stesso
perseguito dall’articolo 97 della Costituzione. E l’interesse collettivo
merita identica tutela anche nel caso di gestione dei servizi pubblici,
«poco importando sotto tale aspetto se esso sia svolto da un soggetto
pubblico o da un privato in regime di mercato e concorrenza o di esclusiva».
Infatti, anche l’attività degli enti pubblici economici e dei
gestori di servizi pubblici, «quando si manifesta nella gestione
di interessi pubblici», rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo
97 della Costituzione: «Essa, pur se sottoposta di regola al diritto
comune, è svolta, oltre che nell’interesse proprio, anche per soddisfare
quelli della collettività ed ha rilievo pubblicistico, sicché
si deve attenere ai principi della trasparenza e del buon andamento».
Dunque, l’articolo 23 della legge 241, che disciplina l’accesso agli
atti dei concessionari di servizi pubblici, si applica anche all’imprenditore
privato gestore di un servizio pubblico. Deve, infatti, essere salvaguardato
«l’interesse pubblico all’effettuazione di scelte corrette da parte
del gestore, quando esse siano finalizzate all’organizzazione efficiente
e alla qualità del servizio».
Secondo questi principi, le Ferrovie dello Stato, per quanto privatizzate,
devono consentire al proprio dipendente di accedere agli atti relativi
a un corso di formazione per quadri. È indubbio — hanno concluso
i giudici — che il rispetto della trasparenza dei concorsi indetti dalle
Fs (che si erano appellate al Consiglio di Stato) coinvolge interessi di
natura pubblicistica e contribuisce a «instaurare corretti rapporti,
anche di natura sindacale, tra le società e i propri dipendenti,
con potenziali riduzioni di tensioni e proteste e con la conseguente maggiore
qualità, funzionalità ed efficienza del servizio».
Antonello Cherchi
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