Violante:
un’ipocrisia l’obbligatorietà dell’azione penale
da Il Corriere della sera del 2.7.98
Giuliano Gallo
ROMA - L’obbligatorietà dell’azione penale? «È
un’ipocrisia istituzionale, perché di fatto è discrezionale:
cosa perseguire o no lo scelgono i magistrati, e questa è la contropartita
dell’indipendenza della magistratura».
Luciano Violante, presidente della Camera ma anche magistrato di lungo
corso, interviene ancora nel dibattito mai spento sulle sorti della giustizia.
L’occasione è la presentazione del volume degli «Annali
d’Italia» della Einaudi, dedicato a «Diritto, legge e giustizia».
Un dibattito al quale partecipano anche la presidente dell’Associazione
Nazionale Magistrati Elena Paciotti, il garante per la privacy Stefano
Rodotà e il direttore editoriale della Rcs Paolo Mieli.
Il ragionamento di Violante, che parte appunto dalla constatazione
che l’azione penale non è mai veramente obbligatoria, affronta poi
il tema cruciale di questi mesi: chi deve decidere le linee di politica
criminale? A chi spetta cioè l’obbligo di «scegliere»
quali tipi di reati perseguire con maggiore o minore accanimento? «La
titolarità della politica criminale deve fare capo ad un organismo
politicamente responsabile», dice il presidente della Camera. Sembrerebbe
un’affermazione forte, controcorrente rispetto alle scelte dell’Ulivo.
Ma poi, a microfoni spenti, Violante precisa: quando parlo di «organismo
politicamente responsabile», dice, non mi riferisco all’Esecutivo,
ma sempre alla magistratura. Sono le singole Procure insomma che dovrebbero
stabilire le linee di intervento. «E il problema è appunto
quello di come arrivare ad una responsabilità politica che però
non tocchi l’indipendenza della magistratura.
Ma perché in Italia politica e giustizia sembrano destinati
ad intrecciarsi così strettamente, spesso in modo drammatico, sempre
in maniera conflittuale? Una possibile risposta la fornisce Paolo Mieli:
«perché l’Italia è uno strano Paese, l’unico tra quelli
sviluppati a non aver mai cambiato la propria maggioranza di governo in
seguito ad elezioni, mai dal 1860. E la sanzione elettorale è invece
la strada maestra delle moderne democrazie». Da noi le maggioranze
politiche si cambiano a colpi di sentenze, dice Mieli, e i contraccolpi
di ogni polemica giudiziaria finiscono per influire sulla politica.
Elena Paciotti pensa che molti intoppi derivino più da questioni
di forma che di sostanza: secondo lei insomma «è da recuperare
intanto il rispetto tra politica e magistratura». Perché oggi
invece «ogni decisione dei giudici è commentata e criticata.
Al contrario, quando qualcuno dei magistrati cerca di proporre qualcosa
al Parlamento, viene duramente contestato. Siamo addirittura arrivati alla
interruzione di sedute al Senato quando un pm aveva chiesto la condanna
di un imputato». E la responsabilità secondo la Paciotti «è
anche dell’informazione, che è interessata a rendere una spettacolarizzazione
della giustizia, invece che ad una formazione».
Mieli contesta: «I magistrati addebitano molte colpe ai giornalisti
delle polemiche sulla giustizia. Ma l’intervista al Corriere del pm Colombo
- dice - non ha chiuso una delle porte della Bicamerale perché il
giornale l’ha messa in prima pagina, ma per il suo contenuto». In
quell’intervista Gherardo Colombo parlava di un sistema politico equamente
diviso fra «ricattati e ricattatori». Meritandosi, lo rivela
adesso Violante, una telefonata proprio dal presidente della Camera.
Che al vecchio collega aveva chiesto a brutto muso: «Io da che
parte sto?».
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