Primo errore, il cambio di vigilanza 

da Il Sole 24 ore del 2.7.99

Il Consiglio dei ministri del 4 giugno ha approvato, in via preliminare, uno schema di decreto legislativo sulla riforma dell’organizzazione del Governo. In questo schema le attuali competenze spettanti allo Stato sugli Ordini verrebbero ripartite tra ministero della Giustizia per avvocati e notai, ministero dei «Diritti sociali» per la salute umana e la sanità veterinaria, ministero delle «Attività produttive» per tutte le altre attività professionali inquadrate genericamente nella voce «servizi».
La scelta generale del Governo, volta a ridurre il numero dei ministeri e a dare a essi un assetto più coeso ed efficiente — come tale largamente condivisibile — pone tuttavia gravissimi interrogativi sul fronte dei rapporti con le categorie professionali. Era sembrato, nelle settimane precedenti il 4 giugno, che tra Governo, forze politiche e gruppi parlamentari si fosse acquisita una buona consapevolezza che il problema di quale destino dovessero avere gli Ordini nel nostro Paese si dovesse risolvere attraverso una discussione serena e approfondita che escludesse improvvise e unilaterali accelerazioni.
Ora, proprio mentre il clima sembrava essere diventato quello giusto per un impegno così delicato, le scelte del Governo riaccendono gli animi. Non si vuole assolutamente discutere il disegno generale della riforma dei ministeri: è da molto tempo, anzi, che si considerava indifferibile una riorganizzazione che ne riducesse il numero e ne compattasse le competenze. Ma non si può ignorare che la decisione presa sugli Ordini, in particolare con l’attribuzione delle competenze statuali, per la maggior parte di essi, alle Attività produttive, rappresenti una forte lesione dell’impegno preso a una concertazione non condizionata da pregiudiziali non condivisibili. Le categorie professionali non possono infatti condividere (ed è noto da tempo) il presupposto della scelta governativa che consiste nella sostanziale inclusione delle professioni liberali nella categoria delle «attività di servizi» equiparandole in questo modo alle attività di impresa. Un orientamento che emerge chiaramente anche dal Dpef.
Proprio su questo punto, nel passato, ci sono stati i conflitti più forti. Non è necessario ricordare le mille ragioni, più volte sottolineate in tante sedi, che rendono inaccettabile una legislazione uniforme per le une e le altre. Né mai (anche se questo dato, che pure è certo, viene spesso ignorato o contraddetto) si è sancita in sede comunitaria una totale identità tra prestazione professionale e attività di impresa.
È proprio per questa ragione che il Ddl 5092, attualmente all’esame della Camera, che sottolinea la distinzione e promuove la riforma degli Ordini sulla base della stessa, è stato considerato da tutti la base migliore per una riforma che trovasse le adeguate soluzioni attraverso il dibattito parlamentare e il contributo dei soggetti interessati.
Appare giustificata, dunque, l’opinione secondo la quale il destino degli Ordini e soprattutto la loro funzione pubblicistica volta a garantire, nell’interesse di tutti, competenza, correttezza e autonomia degli iscritti siano già cancellati da una scelta che ne trasferisce la vigilanza (ammesso che tale termine continui ad avere un senso alla luce della riforma proposta) a un ministero dalle strette caratteristiche mercantili; sottraendola all’unico ministero che ha tradizioni, cultura, sensibilità per tutelare gli interessi pubblici in questo settore.
Sarebbe pertanto del tutto ragionevole e degno di un Paese che continua a cercare di diventare «normale» che, quale che sia l’assetto che gli Ordini potranno avere a seguito della riforma che Parlamento e forze sociali individueranno, sia ristabilita la competenza più idonea alla vigilanza, facendo magari in modo che essa, a salvaguardia degli interessi pubblici, possa essere ancor più incisiva e penetrante di quanto non sia stata in passato.
Gennaro Mariconda
Presidente Consiglio nazionale notariato