Consulta,
in cento pagine la verità sul 513
da Il Corriere della sera del 2.11.98
Giuseppe D’Avanzo,
MILANO - La storia è nota. Nota è la questione. E’ giusto
essere condannati senza poter guardare negli occhi chi ti accusa e contestare
il suo racconto? E’ giusto che le fonti di prova raccolte in istruttoria
siano cancellate con un frego se l’imputato, che prima ha parlato, si cuce
poi la bocca durante il processo? Stretto tra il più elementare
principio di civiltà giuridica (è un
diritto dell’imputato difendersi, è un diritto dell’imputato
tacere) e il pericolo di gettare nel cestino tutte o quasi le indagini
(i processi vanno rifatti, i «confessanti» tacciono, il tempo
passa, il reato è prescritto, tutti liberi) eccolo il tormentone
dell’articolo 513. Che finalmente si chiuderà oggi quando diventerà
pubblica la sentenza della Consulta chiamata a dire la costituzionalità
della legge, delle norme transitorie, delle decisioni della Cassazione
che ha applicato retroattivamente la riforma a tutti i processi in corso
aprendo una sospirata via d’uscita ai già condannati (per fare qualche
nome) Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Antonio Gava, Francesco De Lorenzo,
Duilio Poggiolini, la di lui consorte Pierr Di Maria (ricordate i miliardi
stipati nel pouf in salotto?). Cento pagine sbrogliano il groviglio intricatissimo
riuscendo nella tormentata impresa di salvare la civiltà del processo
e le garanzie dell’imputato senza disperdere sei anni di lavoro della magistratura
e quindi il «disvelamento» di Tangentopoli.
Non si capisce il sentiero scelto dalla Corte costituzionale, se non
si parte dal principio. E il principio è una domanda. Che cosa è
e a che cosa serve un processo? Il nostro processo accusatorio è
uno strumento per accertare l’esistenza di un reato e indicare chi ne è
individualmente responsabile. Se questo è il processo, è
sacrosanto per la Consulta che l’imputato debba poter contrastare chi lo
accusa, averlo lì seduto in aula, potergli porre delle domande e
contestarne le risposte. Come è sacrosanto che, se chi accusa è
imputato tra gli imputati anche se «confessante», possa dire:
«Mi avvalgo della mia facoltà di non rispondere».
Prima della riforma, dinanzi a questa scelta del «correo confesso»,
il pm chiedeva che venissero acquisite al fascicolo del processo le dichiarazioni
rese in istruttoria nel chiuso della sua stanza. Addio oralità del
processo, addio garanzie dell’imputato. Nessuno - tranne pochi «pasdaran»
- hanno messo in dubbio l’inciviltà del rito e la necessità
di una correzione.
La riforma andava fatta. Come è stata fatta è il problema.
Comincia il Parlamento stabilendo, contro il parere del ministro Flick,
che la nuova disciplina va applicata anche nei processi in corso, di primo
e secondo grado. Continua e peggiora il quadro la Cassazione. Decide che
va applicata non solo durante il primo e secondo giudizio di merito, ma
anche nell’esame di legittimità. E’ la piena retroattività
del 513. Che così può essere applicato a tutti i processi,
anche agli affari già conclusi con una sentenza di secondo grado.
E’ evidente che le regole sono cambiate in corso d’opera. La partita era
cominciata con alcune regole e, quasi allo scadere del tempo, ritorna in
alto mare con un altro regolamento. Chi ha perso nella prima partita può
rifarsi nella seconda, come se la prima non si fosse mai giocata. Ne beneficiano
gli imputati di cui è stata già accertata la responsabilità.
Un esempio. Francesco De Lorenzo, che
fu ministro della Sanità, è stato condannato in primo
grado a 8 anni e 4 mesi per 93 capi d’imputazione e 9 miliardi di «mazzette».
Lo accusano un centinaio di industriali farmaceutici. Se dovessero in appello
avvalersi della facoltà di non rispondere (come già hanno
annunciato), delle responsabilità di De Lorenzo non resterebbe traccia.
Ecco, le due fratture che la Consulta deve comporre. Il processo ha
accertato il reato e il responsabile. Le regole in vigore in quel momento
sono state rispettate. Si può dimenticare che non è discrezionale,
ma obbligatorio punire il colpevole? Come si può dimenticare che
quel colpevole non ha potuto incalzare sulla scena del processo il suo
accusatore?
La Consulta ha prioritamente rimesso in ordine le stratificazioni legislative
e giurisprudenziali aggrovigliate dall’intepretazione della stessa Corte
del 1992, dalla revisione legislativa del 1997, dalle norme transitorie,
dalle sentenze della Corte di cassazione. Una volta razionalizzato il sistema
(le prime cinquanta pagina della sentenza sono di diritto), la Consulta
ha trovato il filo giuridico per rispettare il diritto al silenzio dell’imputato
confessante e l’obbligo di accertare il reato e la responsabilità.
Il lavoro dei giudici costituzionali avrebbe distillato un meccanismo per
cui, fermo restando il diritto di avvalersi della facoltà di non
rispondere, in alcuni casi definiti il rifiuto a rispondere non impedirebbe
l’utilizzazione delle dichiarazioni rese al pubblico ministero. Secondo
le indiscrezioni delle ultime settimane, la Corte intenderebbe distinguere
tra chi ha riferito fatti che lo riguardano direttamente, sia pure in concorso
con altri e chi, al contrario, ha spiegato le responsabilità di
altri per fatti che non lo vedono protagonista. Se Silvano Larini ha raccontato
di aver portato nell’ufficio di Craxi in piazza Duomo 9 miliardi in quattro
anni, importa poco se tace o ripete in aula quel che ha detto in istruttoria.
Silenzioso o loquace, le sue dichiarazioni saranno utilizzate. Se invece,
come Alberto Zamorani (all’epoca manager dell’Italstat) o Maurizio Prada
(segretario milanese della Dc), si raccontano non solo i pagamenti effettuati
o le tangenti ricevute in proprio, ma anche le tangenti pagate o incassate
da altri consorzi edili e partiti, le seconde dichiarazioni in caso di
silenzio sono da considerare inutilizzabili. Tecnicamente la sentenza che
i giudici della Consulta hanno scritto avrebbe la formula «manipolativa»
o «additiva» in virtù della quale si dichiara incostituzionale
una norma «nella parte in cui non prevede che...». Alla Consulta,
come si vedrà dalla sentenza che oggi si leggerà, avrebbero
ritenuto la formula sufficiente per restituire civiltà al nostro
processo senza cancellare del tutto le responsabilità già
accertate e giudicate. Resta da vedere quali saranno le reazioni della
magistratura che da tempo ha visto come effetto pratico della riforma del
513 una «prescrizione generalizzata». Ha avuto modo di dire
Gherardo Colombo: «La gran parte dei processi relativi a fatti di
corruzione andrà incontro alla prescrizione. E qu esto è
peggio di un’amnistia perché almeno l’amnistia si applica a tutti
e non soltanto ad alcuni».
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