Accuse, insulti, sospetti quindici giudici nel mirino 

da La Repubblica del 30.12.98

di SEBASTIANO MESSINA 
ROMA - “Corte di fuorilegge!”. “Corte di regime!”. “Corte Beretta, assassina di libertà!”. “Cupola della mafiosità partitocratica!”. “Plotone d’esecuzione contro la democrazia!”. “Stragisti di referendum, ladri di giustizia!”.  Avvolti dal silenzio, immersi nei codici, circondati dall’ossequio, i giudici della Corte costituzionale sanno che ogni tanto devono pagare al mondo un pegno per la loro dorata sopravvivenza: sopportare stoicamente le accuse più infamanti, i sospetti più spregevoli, gli insulti più brucianti, insomma le parole all’arsenico di Marco Pannella. 
Il momento della prova arriva ormai, come vuole una fresca tradizione, subito dopo la Befana, quando i supremi giudici della Consulta devono decidere sui referendum di turno (in numero compreso tra tre e trenta, a seconda della fantasia di Pannella). Quest’anno l’Alta Corte si illudeva di farla franca, perché il medico ha costretto il leader radicale a saltare il giro. E invece, tra Natale e Capodanno, tra un sussurro e un “si dice”, ecco che riappare il sospetto di una Corte dimezzata, serva del potere, piegata alle ragioni della politica. 
I padri costituenti avevano previsto anche questo. “Verrà un giorno che maledirete l’esistenza di questo assurdo organismo!” scandì in aula il vecchio Francesco Saverio Nitti, mentre Vittorio Emanuele Orlando annuiva al suo fianco. Pietro Nenni era scettico, e disse che non occorreva spendere molte parole “per mettere alla berlina la Corte costituzionale”. Palmiro Togliatti la definì addirittura “una bizzarria”, uno strumento pericoloso nelle mani della conservazione: “Non si sa cosa sia, e perché illustri cittadini verrebbero collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia per esserne i giudici. Per giunta senza dover rendere conto a nessuno del loro operato”. 
Forse fu per questa palese diffidenza dei politici, che la Corte si insediò solo otto anni dopo, nel 1956. Per un quarto di secolo il palazzo della Consulta è stato tranquillo come un club di miliardari: poi sono arrivati i referendum, e la profezia di Nitti s’è avverata. A turno, la destra, il centro e la sinistra hanno aperto il fuoco contro quei quindici giudici “irresponsabili”, accusandoli di essere al servizio del nemico. Bettino Craxi, quando la Corte ammise il referendum comunista sul taglio della scala mobile, essendo il capo del governo dovette tacere, però incaricò Martelli di accusare Leopoldo Elia, allora presidente della Corte. E Martelli accusò: “Elia ha fatto esattamente quello che ci si aspettava da lui, cioè ha dato ragione ai comunisti”.
Nessuno dei due sapeva che Elia, in camera di consiglio, aveva votato contro.
I politici non si fidano della Corte, anche perché i suoi ondeggiamenti tra il lecito e l’illecito, tra l’ammissibile e l’incostituzionale, sono più ampi di quelli di una barca da regata. E non sempre i suoi giudici sono al di sopra di ogni sospetto. Anzi: nel 1981, quando i radicali presentarono il referendum sul porto d’ armi, l’allora segretario del Pr Francesco Rutelli scoprì che proprio il giudice relatore su quel quesito aveva il porto d’armi, “e si esercita quotidianamente al poligono di tiro”. La Corte confermò il porto d’armi ma smentì il poligono (e ammise il referendum).  Alla base del sospetto c’è la strada che porta al palazzo della Consulta, una strada che spesso passa per la politica.  I quindici giudici, infatti, sono nominati per un terzo dal Parlamento, per un terzo dal Quirinale e per l’ultimo terzo dalla magistratura. E’ relativamente facile, dunque, disegnare le mappe politiche della Corte. E i più maliziosi cercano le conferme nelle poltrone di ministro, di garante, di senatore o di presidente di commissione che alla scadenza del mandato i giudici e i presidenti della Corte vanno a occupare spesso e volentieri.
Una volta, poi, il sospetto prese corpo proprio dentro le solenni e polverose mura del palazzo. Accadde nel 1987, e più che una polemica fu una deflagrazione. Un botto nel silenzio. Bisognava eleggere il nuovo presidente, e i candidati erano due: Francesco Saja e Giuseppe Ferrari.  Quando vinse Saja, Ferrari convocò la stampa e denunciò un complotto ai suoi danni da parte del “clan dei siciliani”.  Capo dei congiurati, il dc messinese Nino Gullotti. Complici e ascari, i due giudici designati dal Pci. “Ecco il compromesso storico” tuonò lo sconfitto. La Corte si riunì per processarlo, ma lui si dimise prima del verdetto, lasciando dietro di sé la scia del dubbio.
E alla fine, dopo aver colto in fallo i partiti e il governo, qualcuno ha cominciato a cercare qualche traccia che portasse fino all’ altro palazzo di piazza del Quirinale: la presidenza della Repubblica. L’anno scorso un giornale romano (“Il Tempo”) credette di averne trovata una, e accusò Scalfaro di aver influenzato il no della Corte al referendum sulla smilitarizzazione della Finanza. Ci vollero le secche smentite di Prodi e del presidente della Corte, Granata, per calmare le acque. 
Due anni dopo, la caccia ricomincia. Tutte le piste sono buone (almeno fino alla sentenza).