Caselli “punta” il nuovo 513

da La Gazzetta del Sud del 30.1.99

ROMA – Le sentenze, «comprese quelle della Cassazione, vanno rispettate e non commentate. Dove eventualmente ci fossero degli effetti indesiderati bisogna intervenire su quelli». Questo il commento del ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto, sulla sentenza della Cassazione che ha sollevato l’allarme da parte della procura di Palermo. «Siamo in piena attività di studio – ha aggiunto il Guardasigilli – gli uffici del ministero stanno lavorando alacremente. Stiamo anche monitorando, sul piano statistico, i processi. Nel giro di qualche giorno vi daremo una risposta esauriente». Sarà un decreto legge?, gli è stato chiesto. «Ne avete parlato voi», ha replicato il ministro. Diliberto ha comunque precisato di avere «discusso con Caselli dei problemi che si possono verificare». In merito al numero delle eventuali scarcerazioni, il ministro ha ribadito: «Non sappiamo ancora di numero si possa parlare». «La Cassazione fa il suo dovere», ma «il problema è grave» e io, come magistrato, «non posso che segnalare la situazione a chi di dovere affinché eventualmente apporti rimedi, se esistono». Il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli – che ha “incassato” ieri il sostegno del presidente della Commissione nazionale antimafia Ottaviano Del Turco – si difende così dalle critiche che lo hanno investito. Caselli ha espresso il «massimo rispetto» per la Suprema Corte, ma ha ribadito quelle che sono a suo avviso le conseguenze di quella pronuncia per i procedimenti pendenti: «In caso di rapine ed estorsioni la conseguenza è la scarcerazione per scadenza dei termini a causa dell’allungamento dei tempi dei processi; su questo problema bisogna riflettere e vedere se ci sono rimedi». Per il procuratore la Cassazione non ha comunque «chiuso il discorso, semmai lo riapre perché le sezioni unite hanno determinato una situazione da cui partire per adottare rimedi efficaci». Caselli ha poi spiegato come le due sentenze della Cassazione sulle quali ha richiamato in questi giorni l’attenzione la procura di Palermo siano collegate negli effetti, facendo l’esempio di quel che accade per le estorsioni: è difficile per la vittima di un’estorsione confermare la sua testimonianza «quando l’estortore è libero ed è sotto casa sua mattina e sera». E ieri Caselli si è soffermato anche a parlare dell’art. 513 del codice di procedura penale. Il nuovo testo sull’articolo, ancora in discussione in Parlamento, contiene due incisi che metterebbero a rischio, secondo Caselli, il buon esito dei processi contro Cosa Nostra. In particolare un passaggio contenuto nell’articolo 1 di quello che potrebbe essere il nuovo 513, e cioè quello che impedirebbe la condanna dell’imputato se il testimone si rifiuta di rispondere in aula. «Bisognerebbe garantire – afferma il magistrato – anche l’effettività del contraddittorio. Non abbiamo previsto nulla, invece, nessuna regola: accettiamo passivamente il silenzio del teste, che è preferito dagli imputati. Se si affermasse in Costituzione il divieto di condannare un imputato in assenza di contraddittorio, bisognerebbe anche prevedere gli eventuali rimedi. Non c’è dubbio – spiega Caselli – che nessun testimone corrotto, che si rifiuta di andare a deporre, vada a dire che è stato pagato per stare zitto. Ugualmente non ci sarà nessun testimone che affermerà di non parlare perché è minacciato. Caselli passa poi in rassegna l’altro articolo del 513, il numero 4 che ingloberebbe, modificandolo, l’attuale 192 cpp sui riscontri incrociati tra le dichiarazioni dei pentiti: «I magistrati impegnati nell’Antimafia – si accende Caselli – chiedono che il 192 non si tocchi. Siamo forse rigidi? Siamo cattivi? No, non si tratta di questo, è che i processi di mafia sono diversi dagli altri. Piaccia o no, è la verità». Caselli chiarisce meglio il concetto: «Nell’omicidio di mafia spesso non c’è cadavere (sciolto nell’acido o fatto sparire) né l’assassino (a volte ucciso dal suo mandante). E non parliamo dei testimoni assenti o minacciati e quindi inutili. La prova è difficile da trovare più che in un altro processo. Per questo motivo le collaborazioni dei pentiti sono importanti. Ecco perché – conclude Caselli – non si può cancellare il 192. Certo bisogna tenere conto dell’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori, ma senza di loro i processi di mafia non si fanno. Nessuno pretende che sia una prova il semplice incrocio delle loro dichiarazioni, ma solo un elemento da sottoporre al vaglio del giudice terzo. Escludere questo significa tornare ai tempi prima di Falcone e Borsellino quando si diceva che la mafia non c’era».