«Giudici,
pretendo rispetto»
da L'Unione Sarda del 30.7.98
DAL NOSTRO INVIATO
Nuoro Non ha voglia di aspettare, Nichi Grauso. Ai giudici di Palermo,
che gli rinviano di cinque ore un appuntamento in questura, manda un sentito
arrivederci. E se ne va. «Se ne va sul serio?», gli domanda
preoccupatissimo un funzionario della squadra mobile. E lui: «Sì,
me ne vado».
Così comincia il diario di una giornata infuocata, tutta giustizia
e porchetto, dichiarazioni-bomba e prosciutto di cinghiale.
E’ mezzogiorno in punto. A quell’ora l’editore cagliaritano, indagato
per estorsione nell’inchiesta sul rapimento di Silvia Melis, doveva essere
interrogato dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò e due sostituti,
De Leo e Sava. Che in quel momento sono impegnati a Gavoi per sentire un
altro grande indagato, l’avvocato Antonio Piras. Non avevano previsto tempi
lunghi e così decidono di spostare l’incontro con Grauso alle cinque
del pomeriggio. Risposta secca: «Non sono a vostra disposizione».
Lo stupore, ma forse è soltanto un’impressione, corre per un
attimo nello sguardo del professor Luigi Concas che si affretta a spiegare
ai giornalisti: il suo assistito non potrà in ogni caso essere sottoposto
ad accompagnamento coatto (com’è accaduto mesi fa al direttore dell’Unione
Sarda) perché si è regolarmente presentato all’interrogatorio.
Trillano impazziti i telefonini e qualcuno riesce a far avere la notizia
ad Aliquò. Che commenta con gelida calma: «Questa è
un’inchiesta giudiziaria, non è cabaret». Al poliziotto che
tenta una mediazione rispondono no: non va bene che Grauso proponga, per
accorciare i tempi, di venire subito a Gavoi; non va bene neppure la proposta
di farsi interrogare, magari domani, a Cagliari. Inutile, dunque, che dia
i numeri dei suoi telefonini per concordare un nuovo appuntamento. «Alle
cinque in questura a Nuoro».
Ma alle cinque della sera, a Nuoro, i magistrati del pool di Palermo
non hanno trovato nessuno. E adesso, affideranno ai carabinieri l’operazione-recupero?
Probabile. Nel frattempo Grauso ha acceso fuochi d’artificio. All’una meno
un quarto ha cortesemente salutato il difensore (che rientrava a Cagliari)
e si è avvicinato ai microfoni per comunicare la sua decisione:
«Questi giudici sono perlomeno poco cortesi e poco civili».
Abito blu scuro, due segnacci sotto gli occhi dello stesso colore, faccia
terrea. Ascoltare per credere: «Nove mesi fa sono stato interrogato
nell’ambito delle indagini sul sequestro Melis. Poi è seguito un
lungo silenzio. Cinque mesi fa, mentre ero all’estero e il mio avvocato
impegnato altrove, il signor Aliquò mi ha
convocato a Cagliari, caserma di polizia a Buoncammino. Mi presento
puntuale, da buon cittadino. Mi fanno fare un’attesa di oltre due ore e
neppure mi sentono».
Non finisce qui. «Quel che segue è ancora peggio. Ricevo
un avviso di garanzia con un’accusa infamante, estorsione, e vengo convocato
per mezzogiorno a Gavoi. Benissimo. Soltanto ieri sera alle 19 i carabinieri
mi fanno sapere che no, non è più a Gavoi che dovrò
essere sentito ma a Nuoro. Stessa ora. Mi domando come facciano a interrogare
Piras alle dieci e me appena
due ore più tardi».
Difficile? Impossibile. A Gavoi, dove tutto comincia all’orario previsto,
le cose vanno per lunghe. L’avvocato Piras - accusato insieme a Grauso
e al giudice Luigi Lombardini di aver intascato parte del riscatto - esce
soltanto dopo quasi quattro ore. E, a sentire chi lo conosce, palesemente
infastidito. Ai cronisti che gli domandano a chi siano stati consegnati
i soldi dei Melis,
risponde con una frase sibillina, inquietante: «Ah saperlo. Molto
più facile fare un terno al lotto».
Se ha adoperato le stesse parole coi magistrati di Palermo, è
ovvio che l’interrogatorio sia andato oltre il previsto. Resta il fatto
che nel frattempo l’altro indagato respinge la prospettiva di un’attesa
infinita. «Lo dico da cittadino. Io rispetto i magistrati. Esigo
che loro rispettino me. Sia chiaro, le istituzioni sono al servizio dei
cittadini, non il contrario. Combatterò sempre per questo
principio». Grauso non lascia varchi a soluzioni diplomatiche
e spara a zero: «Speriamo non siano altrettanto superficiali quando
fanno le inchieste».
Tra le mani stringe un pacchetto di sigarette, fazzoletti di carta,
due telefonini. E’ visibilmente teso ma riesce a controllare la sua rabbia
e trasformarla in un un discorso politico ad ampio raggio. Forse ha ragione
chi dice, con cattiveria, che il ritardo sull’interrogatorio sta diventando
un’occasione per soffiare sulla propria immagine. Può darsi si tratti
davvero di una di quelle
che lui chiama palle-gol. Resta il fatto che gli hanno dato la possibilità
di andare in rete.
E ne approfitta, subito. Con provocatoria lucidità. Dissemina
mine nel campo dell’informazione richiamandosi a principi sacrosanti: «Se
la gente comune deve essere rigorosamente puntuale di fronte alla giustizia,
perché i magistrati non debbono fare altrettanto?». Intanto
stringe le mani di qualcuno che lo riconosce per strada, che vuole manifestargli
solidarietà. Lui - che forse non aveva programmato questa piccola
apoteosi barbaricina - gongola e s’indigna. S’indigna e gongola.
Sa di avere ragione e questo lo spinge in contropiede annunciando,
casomai ci fosse stato l’interrogatorio, su quali argomenti avrebbe risposto
e quali no. «Non credo ci sia davvero qualcuno convinto che io mi
sia fregato una parte dei soldi del riscatto.
Allora mi sono detto: cosa vogliono da me? Se puntano a un regolamento
di conti con il loro collega Lombardini, sappiano che non mi presterò
ai loro giochi». Ce n’è, in aggiunta, anche per Tito Melis:
«Posso capire il suo desiderio di recuperare il danaro che ha speso,
ma non ho nulla da dire oltre quello che ho già detto. Ho il dovere
di salvaguardare la mia vita». Respinta anche
l’ipotesi di un riscatto finito nelle mani sbagliate. «Sono assolutamente
sicuro di aver consegnato i millequattrocento milioni alle persone giuste».
Precisa che quando l’avvocato Piras gli ha dato i soldi da consegnare ai
banditi, s’è preso perfino lo sfizio di lasciare una sorta di ricevuta:
un assegno da un miliardo. (Assegno sequestrato più tardi dalla
polizia). E il resto? Le indiscrezioni raccontano che la liberazione di
Silvia Melis è costata complessivamente due miliardi e seicentocinquanta
milioni così suddivisi: un miliardo e quattro consegnato ad Esterzili,
un altro miliardo a liberazione avvenuta più un extra di duecentocinquanta
milioni.
Tutto qui? Tutto qui. Nonostante le insistenze di molti, Grauso decide
che rientra a Cagliari. «Mi fissino un altro appuntamento.
Sono disponibile».
Difficile dire quando gli sia venuto il lampo d’una idea che forse
masticava già da qualche ora. All’imbocco della Carlo Felice, lungo
la strada che arriva a Ottana, realizza che la giornata non è ancora
finita. «Andiamo a Gavoi». Dice d’essere curioso di vedere
come stanno le cose da quelle parti, fino a che ora la tireranno col «povero
avvocato Piras». In realtà, forse, ha già
immaginato. E quasi parlando a se stesso, fa seguire una riflessione
in apparenza fuori luogo: «Io non nego il diritto a un legittimo
pranzo, ma mi dico che se hai un impagno, se devi magari interrogare qualcuno,
non è la fine del mondo se lo salti, se rimedi con un panino. Giusto?».
Non raccoglie risposta e nel silenzio di un viaggio lungo i tornanti
della provinciale (dove il giallo dell’erba secca e il verde dei lecci
fanno esplodere i colori di un paradiso naturale), rimugina un pensiero
che lo disturba, un sospetto che di lì a poco farà esplodere
la sua indignazione.
Appena passate le due del pomeriggio - sole a trapano - il commissariato
di Gavoi appare deserto. L’interrogatorio dell’avvocato Piras? Finito.
Dove sono il procuratore Aliquò e i suoi sostituti? A Nuoro, dice
un poliziotto, per il compimento di atti istruttori. A pranzo, puntualizza
un altro. A pranzo dove, se non sul lago di Gusana?
L’entrata di Grauso nella sala-ristorante spegne qualche rilassato
sorriso agli antipasti. In compagnia del capo della squadra mobile di Nuoro,
Piero Arangino, il dottor Aliquò mangia coi colleghi in un tavolo
appartato. All’improvviso comincia una guerra di sguardi, lampi velocissimi,
scampoli di stupore. C’è chi teme una scenata, uno show, una protesta
dura e (soprattutto)
a voce alta. Il capo della mobile sembra a disagio, sussurra qualche
parola ai suoi commensali e, probabilmente, si prepara al peggio.
Che non arriva. Grauso passa davanti al tavolo e viene subito intercettato
da Arangino: tenuto conto del ritardo, non potrebbe?
No. Meglio venirsi incontro e vedersi a Nuoro fra un po’? No. Ma perché
perdersi su queste banalità? Niente da fare. «Alle cinque
non ci vedremo proprio».
Vittorio Aliquo è un elegante signore dai capelli bianchi. Quando
lascia il ristorante, intorno alle 15, scambia volentieri due battute coi
giornalisti. Conferma che si sta recando a Nuoro «per il proseguimento
di atti istruttori», sottolinea di avere in mano «fatti concreti,
importanti» e mostra un laconico disinteresse quando gli dicono che
in questura non troverà nessuno. A proposito: che farà dopo?,
disporrà l’accompagnamento coatto? Si vedrà. Glissa, saluta
e scompare.
Un quarto d’ora più tardi ha finito di pranzare anche Grauso.
Che si prepara con calma al secondo tempo di una giornata vissuta da protagonista.
Lo aspetta l’inviato del Corriere della Sera e quello di Repubblica, dà
un’intervista alla Nuova Sardegna, a Rai 3, Rai 1, Radio Radicale, Ansa
e Videolina. Per Canale 5 registra addirittura due interventi: uno di trenta
secondi, l’altro più articolato casomai il Tg avesse più
tempo da dedicargli.
Finalmente si può tornare a Cagliari: ora e soltanto ora. In
macchina ricomincia la musica dell’ultimo ballo: incalzano i Giornali radio,
una tivù oristanese gradirebbe un faccia a faccia sul sequestro
Melis, riscatto e contorno. Lui sta lì, piegato sul telefonino per
essere ascoltato bene, fa la prova microfono («uno-due-uno-due»),
scandisce con attenzione le parole. Ed è felice, solo, appagato:
sicuro d’aver vinto un’altra battaglia.
GIORGIO PISANO |