Troppa
discrezionalità nella conciliazione? La parola alla Consulta
da Il Sole 24 ore del 30.3.99
La Commissione provinciale tributaria di Como con ordinanza del 5 febbraio
1999, spedita il 15 marzo 1999 (pubblicata in Guida Normativa del 26 marzo),
ha rimesso alla Corte costituzionale il giudizio sulla legittimità
dell’articolo 48 del decreto legislativo 546/1992 nella parte in cui non
prevede, nell’ambito di applicazione della conciliazione da parte dell’Amministrazione
finanziaria, parametri normativi di riferimento soggetti al controllo del
giudice tributario.
L’ordinanza invoca il rispetto dei limiti di azione della Finanza e
ha il merito di rappresentare le forti ragioni di conflitto del nuovo istituto
della conciliazione con i principi cardini del sistema impositivo. Vediamo
perché.
a) L’istituto della conciliazione giudiziale riconosce una sostanziale
discrezionalità amministrativa alla Finanza in luogo di una attività
vincolata o di una discrezionalità meramente tecnica. Certo l’inserimento
del principio del contraddittorio nell’attività di composizione
della lite può valere quale limite alla discrezionalità del_l’Amministrazione,
ma è altrettanto vero che il principio della discrezionalità
meramente tecnica domina in tutta la materia fiscale, salvo aree in cui
l’Amministrazione gode di una certa discrezionalità amministrativa,
ad esempio nell’esercizio di poteri istruttori e di controllo (selezione
di soggetti da controllare eccetera).
b) Posto che il potere impositivo è innanzi tutto regolato dai
principi costituzionali di eguaglianza, legalità, capacità
contributiva e imparzialità (articoli 3, 23, 53 e 97 Costituzione),
è lecito chiedersi se l’attuale disciplina della conciliazione tributaria
costituisca una deroga al carattere essenziale della potestà di
imposizione della indisponibilità della pretesa tributaria. Anche
se per parte della dottrina la conciliazione ha natura transattiva, questa
conclusione veramente contrasta con il carattere strettamente vincolato
dell’attività tributaria e non è agevole coordinarla con
i ricordati principi costituzionali.
Per escludere la natura transattiva della conciliazione e ricomprenderla
nell’ambito di una attività volta all’interesse pubblico, la sua
applicazione è da alcuni, in via interpretativa, limitata ai soli
accertamenti fondati su presunzioni (e non su prove certe e dirette) e
alle questioni estimative di incerta qualificazione, riducendola in buona
sostanza a questioni di fatto concernenti la quantificazione dell’imponibile,
escluse quindi le questioni di diritto.
c) Se all’istituto della conciliazione si deve guardare con favore
perché diretto ad alleggerire il contenzioso tributario e a ricercare
«una composizione consensuale giusta della controversia», ben
si comprende come il problema dei limiti della conciliazione vada affrontato
congiuntamente al potere di controllo attribuito alla Commissione provinciale
tributaria.
Allo stato attuale, anche se l’Amministrazione e il contribuente possono
addivenire liberamente a qualsiasi composizione della lite, la legge riserva
al giudice tributario solo il potere-dovere di sindacare la legittimità
formale e sostanziale del procedimento, con esclusione di ogni sindacato
di merito inerente alle ragioni di opportunità e di convenienza
economica circa l’intesa raggiunta.
A me pare, quindi, che l’indisponibilità del credito tributario
non vada portato sino al limite estremo di escludere ogni possibilità
che l’Amministrazione possa incidere sull’obbligazione tributaria, ma che
per superare l’impasse sia opportuno, in ossequio ai citati precetti costituzionali,
che la legge determini dei parametri e criteri cui l’attività della
Finanza debba attenersi, con conseguente potere del giudice tributario
di verificarne il rispetto.
SilvioD’Andrea
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