Riforme senza Bicamerale

da La Repubblica del 30.5.98

Se la commissione fallisse, la via maestra sarebbe il ricorso all’articolo 138

di STEFANO RODOTA’
Era nelle cose il rischio di un fallimento della Commissione bicamerale? E dunque si è trattato di un azzardo che non bisognava correre, visto che si metteva in gioco la stessa legge fondamentale della Repubblica? Lascio da parte ogni polemica, ogni “l’avevamo detto”, e mi limito a sottolineare come l’ intera vicenda della Bicamerale, quale che possa essere la sua conclusione, abbia confermato che non esistevano le condizioni “culturali” per avviare un’impresa di riscrittura di gran parte della Costituzione che, proprio per questo, da ambiziosa diveniva rischiosa. E per condizioni culturali intendo un insieme di fattori, che vanno dalla qualità delle elaborazioni sui diversi temi all’ampiezza degli orizzonti politici, alla capacità di affrancarsi dalle tentazioni della contingenza, per non avvilire il lavoro di riforma in un uso congiunturale delle istituzioni.
Ho voluto ricordare questo problema capitale perché la soluzione che già si prospetta se la Bicamerale fallisse, il ricorso ad una assemblea costituente, non solo non lo supererebbe, ma lo aggraverebbe. Infatti, prima l’elezione di questa assemblea e poi il lavoro al suo interno esaspererebbero i conflitti già esplosi nell’ultima fase e rafforzerebbero le tentazioni, già manifeste all’indomani delle elezioni del 1994, di scrivere “una Costituzione dei vincitori”.  Ora sono all’opera mediatori e pompieri. Se i loro tentativi non avessero successo, davvero le elezioni anticipate sarebbero l’unica possibile via d’uscita? Chi ha ripetutamente sostenuto che Bicamerale e governo erano cose diverse, così come diverse potevano essere le maggioranze parlamentari a sostegno del governo o a favore dei diversi articoli della riforma costituzionale, dovrebbe coerentemente escludere che il governo sarebbe automaticamente travolto dalla fine del processo di revisione costituzionale quale si è svolto finora. E lo stesso dovrebbe fare chi ha insistito sul punto tutto politico della stabilità governativa, sul rischio grande di interrompere oggi una fase alla quale non si addicono i traumi abituali del passato, ma che esige, se mai, una capacità di iniziativa programmatica della maggioranza, che passi dall’emergenza Maastricht alle molteplici emergenze che ogni giorno si rivelano ai quattro angoli del paese. Mentre si denunciano retoricamente le nostalgie per la Prima Repubblica, la corsa verso lo scioglimento delle Camere come unica soluzione ci riporterebbe di colpo alle reazioni e alle abitudini peggiori del degrado della Repubblica. E peggio sarebbe se il fallimento della Bicamerale venisse utilizzato per regolare altri conti.  E allora? Chiudere bottega, e andare avanti come se nulla fosse successo? Questo è molto difficile e dovrebbero saperlo anche quelli che, in tutti questi anni, più hanno avversato non solo le ultime ipotesi di riforma, ma la stessa scelta di abbandonare l’ordinario circuito parlamentare e di affidarsi fin dal 1983, con esiti sempre deludenti, a commissioni parlamentari. Piaccia o non piaccia, infatti, si è ormai identificata la soluzione di molti problemi con una revisione costituzionale, sicché la sconfitta di un cattivo metodo e di un cattivo progetto potrebbero essere percepiti come uno scacco d’una essenziale impresa riformatrice, come uno stallo del sistema politico-istituzionale. 
È il caso di riprendere la via maestra, indicata dalla stessa Costituzione nel suo articolo 138, riportando nell’ordinario lavoro parlamentare la revisione costituzionale. Certo, qualcuno avvertirà questo come una sconfessione, e cercherà di avversare questa soluzione. Ma non è tempo di ripicche.  Piuttosto, riprendere la via della revisione secondo le procedure ordinarie esige il rispetto di alcune condizioni minime: 1. abbandono della pretesa di riscrivere tutto identificando invece le poche questioni davvero urgenti e bisognose di revisione; 2. distinzione tra problemi da affrontare in sede costi tuzionale e problemi da lasciare alla legislazione ordinaria; 3. proposte nette e precise, e non nebulosa individuazione di problemi con sostanziale indifferenza per le soluzioni da adottare. L’esperienza ci dice che, mancando punti di riferimento fermi, l’impresa di riforma finisce con l’essere esposta ad ogni malumore; 4. rinuncia alla logica di una riforma affidata tutta a ristrettissimi stati maggiori, impermeabile ad ogni suggestione culturale, indifferente rispetto a qualsiasi forma di coinvolgimento che non sia quella di addetti ai lavori.
So che si tratta di condizioni impegnative. Ma questo può essere il solo modo per rendere subito evidente all’opinione pubblica chi vuole le riforme e chi non le vuole, e quale può essere il modo per riprendere seriamente la discussione sulle sole riforme davvero utili. Proprio chi fa professione di realismo non dovrebbe essere disattento di fronte a questa opportunità.