LA
GIUSTIZIA DEI POVERI
Di Giuliano Berti Arnoaldi Veli
I. - Il movimento per l’accesso alla giustizia
E’ stato a metà degli anni sessanta che il tema della
“giustizia dei poveri” - o meglio, quello della necessità di esaminare
gli ordinamenti processuali anche in chiave di accessibilità da
parte dei ceti economicamente deboli - è emerso - a livello di coscienza
sociale non meno che di necessità di intervento riformatore - in
tutte le società occidentali.
L’emersione del problema è avvenuta nell’ambito di un
movimento di pensiero denominato comunemente “per l’accesso alla giustizia”.
A livello teorico, il movimento prendeva le mosse da una critica al formalismo
giuridico - visto come forma degenerativa del positivismo giuridico - e
alla sua pretesa di identificare il fenomeno giuridico esclusivamente dal
complesso della normativa statale. Secondo il movimento per l’accesso,
tale impostazione portava ad una irrealistica semplificazione dei compiti
del giurista, che trascurava una concreta considerazione dei soggetti reali,
delle istituzioni, dei procedimenti, destinatari effettivi della normativa
positiva. (1)
Si veniva così ad affermare quella che venne chiamata
la concezione “contestuale” del diritto processuale, nell’ambito della
quale venivano in rilievo - assieme alla norma positiva - anche i profili
sociali, culturali, economici: primo fra tutto quello della accessibilità
concreta agli individui, ai gruppi, alle società, e conseguentemente
il profilo dei costi, della durata, degli oggetti dei processi, nonchè
il loro impatto sulla società.
Va detto che un siffatto approccio “contestuale” al problema
del processo, per quanto possa apparire oggi addirittura scontato specie
agli occhi degli avvocati, appariva invece assai rivoluzionario per l’epoca,
nella quale nessun testo di diritto giudiziario (con la eccezione del libro
Processo e democrazia di Calamandrei) spendeva una sola pagina su temi
come quelli delle difficoltà (costi e tempi) che le parti incontrano
nella loro concreta domanda di giustizia.
Quella che è stata definita la “prima ondata” di studi
critici e di riforme promosse o comunque stimolate dal movimento per l’accesso
alla giustizia si è dunque concentrata sull’ostacolo della povertà:
cioè a dire sul problema di porre anche le parti povere su un piano
di uguaglianza nel processo civile non meno che nel processo penale.
II. - Legal aid: le forme possibili
Nell’ambito di tale “ondata” di ricerche (e di riforme) si è
potuto constatare come i modelli di patrocinio dei non abbienti (legal
aid) possano essere a grandi linee ricondotti a tre modelli:
1) il modello “caritativo” tradizionale, adottato nella seconda metà
dell’Ottocento in Francia, Germania e Italia, che consiste nel porre a
carico della classe degli avvocati un dovere di prestare gratuitamente
la propria opera per i poveri. Si tratta di un sistema che è in
parte ancora in vigore nel nostro paese, e che è da tempo oggetto
di critica radicale.
2) Il sistema detto judicare
Si tratta di un sistema che pone il legal aid come un diritto
del cittadino che si trova nelle condizioni previste dalla legge, e in
relazione ad esso lo Stato interviene pagando l’avvocato libero professionista
al quale il cittadino non abbiente si rivolge. E’ questo il sistema che
negli anni recenti è stato scelto nelle riforme del legal aid in
Austria, Inghilterra, Olanda, Francia e Germania. (2)
E’ interessante notare che, nel sistema previsto dal Legal
Aid Act inglese, del 1974, si prevede che chi ha necessità del gratuito
patrocinio possa scegliersi un avvocato in una lista di legali datisi a
tanto disponibili (di fatto lo sono quasi tutti, perchè i compensi
sono remunerativi), e ottenere senza particolari formalità subito
25 sterline, per pagarsi il consulto e la predisposizione delle domande
di ammissione al gratuito patrocinio vero e proprio.
Il sistema francese, introdotto dalla legge 3/1/1972 sull’aide
judiciaire (modificata e ampliata dalla loi 697 del 10.7.1991), cerca anche
di sovvenire soggetti bisognosi anche se non definibili “poveri”, e inoltre,
in alcuni casi ritenuti di rilevanza sociale, anche indipendentemente dal
reddito del richiedente.
A questo sistema è ispirata la nostra Legge 30.7.1990
n. 217, peraltro limitata (quasi) esclusivamente alla materia penale.
Questo sistema ha il grosso vantaggio di poter far ricorso alla
avvocatura privata, che esiste già, ed è organizzata, anche
se forse nella sua maggioranza non è preparata ad affrontare i problemi
dei poveri, specie quelli più umili, che hanno generalmente caratteristiche
anomale o comunque non coincidenti con quelli degli abbienti. Esso però
ha il grave difetto di non essere facilmente accessibile - sia per ostacoli
psicologici, sia perchè strutturalmente inidoneo a fornire la consulenza
stragiudiziale necessaria a fornire al povero l’informazione sui suoi diritti.
3) Avvocati dei poveri stipendiati dallo Stato
Un terzo modello è stato sviluppato negli USA a partire
da una legge del 1964 (l’Economic Opportunity Act) che istituì -
nell’ambito della campagna di “war on poverty” degli anni kennediani -
degli uffici legali di quartiere, retti da avvocati stipendiati direttamente
dallo Stato, e deputati ad occuparsi degli interessi dei poveri come classe.
Si tratta di un sistema che, all’evidenza, è più
aperto verso le problematiche dei poveri nel loro insieme, ha quindi più
possibilità di intervento e maggiore specializzazione nelle problematiche
tipiche dei ceti svantaggiati economicamente. A questo proposito, si è
detto che tale sistema riesce ad aiutare i non abbienti a far emergere
i loro diritti (dei quali sono spesso inconsapevoli) essendo l’unico che
crea un vero avvocato per i poveri visti come categoria, o classe.
D’altra parte, il sistema ha anche delle controindicazioni. Innanzitutto,
esso si presta, proprio per la sua ottica, a valorizzare di più
i compiti di promuovimento di leading cases, e di azioni di politica giudiziaria
a favore dei poveri, più che ad una attenta difesa dei casi del
singolo cliente. In secondo luogo, è stato ritenuto che l’imporre
autoritativamente al non abbiente un ufficio legale statale, quasi che
lui stesso fosse incapace di tutelarsi da solo, possa essere e sia effettivamente
apprezzato come un atto paternalistico: con le conseguenze che i potenziali
utenti se ne allontanino. (3)
Infine - ma è l’obiezione più grave - si è
visto che questa via lega strettamente le sorti del legal aid ad un cospicuo
sussidio del governo, per sovvenzionare attività legali che spesso
sono dirette contro il governo stesso. C’è dunque seriamente il
problema dell’influenza che il governo che li paga può avere sugli
avvocati stipendiati (argomento sempre attuale, questo dell’indipendenza
degli avvocati e della loro incompatibilità con il lavoro dipendente).
Di fatto, il modello americano è stato effettivamente messo in crisi
dai tagli dei finanziamenti avvenuti negli anni reaganiani: e in difficoltà
economiche si dibatte ancora oggi, come si vede nell’ultimo dei romanzoni
americani del filone giudiziario (L’avvocato di strada, appunto, di Grisham).
4) Il sistema italiano
La emersione del problema del legal aid è avvenuta, abbiamo
detto, verso la metà degli anni sessanta, a livello mondiale.
Così è stato anche in Italia, seppure in lieve
ritardo.
In Italia, erano esistiti in vari stati degli uffici degli avvocati
e procuratori dei poveri, retribuiti dall’erario (4). Subito dopo l’unità
dell’Italia, con la legge 6.12.1865 n. 2626 (c.d. legge Cortese), gli uffici
a spese dell’erario vennero aboliti, nell’ambito della unificazione della
legislazione dello stato unitario, ma in realtà per ragioni di risparmio
economico. Contemporaneamente, con la legge 6.12.1865 n. 2627, il patrocinio
gratuito dei poveri venne dichiarato ufficio obbligatorio della classe
degli avvocati e procuratori.
Il sistema è rimasto inalterato per cent’anni, avendo
il r.d. 30.12.1923 n. 3282 tuttora vigente ribadito che il patrocinio gratuito
dei poveri è “ufficio onorifico ed obbligatorio” degli avvocati.
E funziona così, in due parole:
a) l’avente diritto deve presentare ad una commissione apposita domanda
scritta “contenente una chiara e precisa esposizione sia dei fatti che
delle ragioni e dei mezzi legittimi di prova” sui quali la domanda è
fondata;
b) la commissione, effettuate le indagini, sullo stato di povertà,
deve valutare il fumus boni iuris, dell’azione che si vuole proporre, e
questo in contraddittorio con il controinteressato, che può comparire
davanti alla commissione e anche controdedurre per iscritto;
c) in caso di ammissione al gratuito patrocinio, la commissione nomina
un legale che assumerà il patrocinio, essendo pagato solo se riesce
ad ottenere la vittoria nella causa e la condanna della controparte nelle
spese. Unico beneficio, la parte ammessa al patrocinio sarà esentata
dal pagamento di bolli, diritti e tasse di registro.
Un siffatto sistema è stato accusato di “scaricare” completamente
sulle spalle di una categoria definita (gli avvocati) un onere sociale
di competenza dello Stato. Con la conseguenza, si è detto, che nella
pratica, salvo rare eccezioni e a parte quelle frange per fortuna sempre
più ampie di popolazione alle quali riescono a provvedere i vari
enti di patronato, di categoria, o le associazioni, specie sindacali -
le parti povere finiscono per essere difese in giudizio dagli avvocati
meno esperti, meno impegnati. Il povero - è stato notato - diviene
così “una specie di malato-cavia che, non pagando il proprio medico
e le proprie cure, serve ai più giovani e inesperti avvocati a farsi
le ossa o agli avvocati falliti a mantenere qualche superstite contatto
con i tribunali” (5)
Il “manifesto” per così dire della campagna per la riforma
di questo sistema è costituito da un articolo di Mauro Cappelletti,
denominato appunto “La giustizia dei poveri” che appare su Il Foro Italiano
del giugno 1968, e che è significativamente dedicato alla memoria
di don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, nel primo anniversario della
sua morte (6). L’articolo sottolineava particolarmente lo scandalo dell’inadempimento
dell’obbligo costituzionale posto dall’art. 24 comma 3 (“sono assicurati
ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi
davanti a ogni giurisdizione”); ma sottoponeva anche a precise critiche
la legge esistente, evidenziandone le “trappole”, o “inganni”, per il povero:
a) l’assenza della previsione di una consulenza gratuita stragiudiziale
per il povero: che è ciò di cui il povero ha più bisogno,
perchè d’ordinario non sa se ha dei diritti, o se lo sa non ha idea
di cosa deve chiedere, o se può far causa, o a chi;
b) l’obbligo di predisporre una domanda scritta dettagliata, che presuppone
una chiarezza di idee, una capacità di scrivere e una conoscenza
che difficilmente chi ricorre al gratuito patrocinio possiede;
c) la domanda di gratuito patrocinio è soggetta a delibazione
sulla base della domanda di cui sopra (domanda che provenendo da persona
non esperta potrà facilmente essere mal presentata), e in contraddittorio
con il controinteressato, nei cui confronti il richiedente deve dunque
inopportunamente “scoprire le proprie carte”.
Un forte movimento si sviluppò allora per una radicale
riforma della normativa che divenne uno dei cavalli di battaglia delle
richieste dell’avvocatura (7).
Furono presentati alcuni progetti - trasfusi poi in disegni di
legge di iniziativa governativa, che giunsero a delineare un sistema ispirato
al modello del judicare, ma che non fu mai approvato. Fu approvato però
uno stralcio, contenuto negli artt. 11-15 della legge 533/1973, sulle controversie
individuali in materia di lavoro e previdenza, e limitate alla causa di
lavoro.
Con questa legge, fu introdotta la possibilità, per le
parti del processo del lavoro, di presentare contestualmente alla costituzione
in giudizio, una domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato;
in caso di ammissione, il costo della difesa viene assunto dallo Stato.
Quantunque il sistema adottato sia sostanzialmente agile e immediato,
la riforma è fallita completamente: i casi di ricorso al patrocinio
a spese dello Stato in materia di lavoro si contano sulle dita di una mano.
La ragione è legata al fatto che nelle materie del lavoro e della
previdenza, la pratica aveva elaborato da sè un sistema di fatto
di difesa dei lavoratori (e dunque anche dei non abbienti) che passa attraverso
le centrali sindacali, le quali tramite avvocati “di riferimento” assicurano
le possibilità di agire o resistere in giudizio senza anticipare
spese, senza pagare in caso di esito negativo, e corrispondendo alla associazione
una quota percentuale (con la quale viene retribuito l’avvocato) in caso
di vittoria.
Miglior fortuna ha avuto invece la legge 30.7.90 n. 217, che
ha introdotto il patrocinio a spese dello Stato - sempre con il sistema
del judicare - per la materia penale (e per i procedimenti civili per il
risarcimento del danno da reato). Questa legge anzi sta avendo un boom
di applicazione pratica: dalle 99 persone che ne usufruirono nel primo
anno di applicazione, si è passati a 2.863 nel ‘91, a 4.721 nel
‘92, a 7.318 nel ‘93, ai 12.460 nel ‘94, a 14.062 nel ‘95, ai 21.980 nel
‘96, a 26.410 nel ‘97. La relativa spesa è passata dai quindici
milioni del 1990 ai 7 miliardi del 1995, fino ai 18 miliardi del 1997 (8).
V. - I progetti di modifica
Nella sostanza, la legge 217/90 è stata l’unica ad avere
un qualche positivo effetto concreto, seppure limitato alla sola materia
penale, anche se non sono mancate voci critiche che hanno sottolineato
come nella pratica questa legge si presti facilmente ad essere utilizzata
- ed anzi lo sia in termini economicamente prevalenti - da parte della
grande criminalità organizzata che dispone di grandi capitali ovviamente
non dichiarati fiscalmente e dunque si trova spesso in apparente situazione
di non abbienza (9).
E’ dunque partendo dal sistema di questa legge che si sono mossi
i progetti di riforma. Alla Camera dei Deputati è stata presentata
- ad iniziativa del deputato Pecorella - la proposta di legge AC 5477,
tendente a modificare la legge 217/90 al fine di ampliarne la utilizzabilità
(con l’estensione del beneficio anche all’indagato non ancora imputato,
con estensione alle contravvenzioni, con elevamento del limite di reddito
annuo per l’accesso al beneficio, con semplificazione della modalità
di ammissione, con l’introduzione della possibilità di avvalersi
di consulenti di parte e di un investigatore).
Se la proposta Pecorella si muove dichiaratamente all’interno
del giudizio penale, più ambiziosa (e più interessante per
il nostro ragionamento) è il progetto messo a punto dal sindacato
romano degli avvocati, che ha predisposto un lungo articolato che è
rivolto invece alla materia civile, e che costituisce nella sostanza la
migliore summa delle idee che - nell’ambito di un sistema di tutela del
tipo del judicare - sono state elaborate in Italia negli anni recenti.
Il progetto del sindacato romano innanzitutto recepisce un criterio
elastico di valutazione della non abbienza (“in riferimento all’incidenza
percentuale dell’onere ragionevolmente prevedibile ... rispetto alle disponibilità
economiche dell’interessato”), e prevede che la non abbienza possa essere
totale o parziale, con conseguente sovvenzione totale o parziale degli
oneri della difesa.
La difesa dei non abbienti viene assunta dai liberi avvocati,
che si iscrivono volontariamente nell’elenco dei “patrocinatori dei non
abbienti” tenuti dai Consigli degli Ordini. L’ammissione è deliberata
da una apposita commissione, che deve valutare anche la non manifesta infondatezza
dell’azione da intraprendere (non nel penale, ovviamente). Il difensore
che venga designato al non abbiente non può rinunciare all’incarico
se non per giustificati motivi.
Il costo della difesa è a carico totale o parziale dello
Stato, che paga dunque sia il difensore che i consulenti eventuali, se
il non abbiente non ottiene la condanna alle spese della controparte, ovvero
se avendola ottenuta non riesce a porla in esecuzione. E’ poi previsto
che il difensore possa, anzichè incassarlo, portare il compenso
riconosciutogli in detrazione dalla sua denuncia dei redditi. Infine, la
innovazione più rilevante è la introduzione del principio
che enti, istituzioni, associazioni o anche persone fisiche possano formalmente
assumersi gli oneri difensivi degli non abbienti, previa ammissione da
parte di una apposita commissione, considerando poi le somme erogate come
oneri deducibili dalla denuncia dei redditi come erogazioni liberali.
Pur con qualche farraginosità, la proposta del sindacato
romano costituisce forse il punto massimo al quale si può arrivare
con una riforma che si muova nell’ambito della costruzione di un sistema
di difesa esercitato da liberi professionisti con pagamento dello stato.
VI. - Il ruolo dell’avvocato
Sia la riforma che i progetti muovono dunque tutti dall’accantonamento
del ruolo “onorifico” dell’avvocato come patrocinante gratuito dei poveri:
anche tecnicamente, il “gratuito patrocinio” diventa “patrocinio dei non
abbienti”. Non c’è dubbio che questa impostazione colga una parte
importante della realtà: e cioè quella che - in una società
complessa, in cui il ricorrere a giustizia, è una impresa lunga,
costosa e di esito incerto, il pensare di risolvere le difficoltà
di accesso alla giustizia dei ceti poveri addossandola agli avvocati è
operazione irrealistica. Per questo, credo che il progetto del sindacato
romano vada valutato positivamente nel suo insieme.
Ma c’è un altro aspetto, che invece non è stato
colto, e che va (ri)considerato: e che rivaluta in qualche modo in chiave
non solo “caritativa” il gratuito patrocinio.
In realtà, nessuno dei sistemi che si son visti sopra
è in grado di risolvere da solo i problemi dei poveri: le cui esigenze
sono spesso difficilmente inquadrabili nello schema di una domanda di ammissione
al gratuito patrocinio.
Il problema principale, io credo, è la consulenza stragiudiziale,
la possibilità di accedere a consultazioni qualificate, che dimostrino
al povero che ha dei diritti, e che vi è la possibilità concreta
di esercitarli.
Rispetto a tale profilo, solo gli avvocati sono in grado di fornire
una adeguata risposta, continuando a mettersi a disposizione dei non abbienti
gratuitamente, come è sempre avvenuto, individualmente o attraverso
associazioni e enti privi di scopo di lucro.
Angiola Sbaiz sosteneva che il gratuito patrocinio è “il
privilegio della nostra toga” ed è proprio quello “che giustifica
quel gradino sul quale crediamo mettere non la nostra persona, ma la toga
che abbiamo l’onore di portare” (10). Fatta la tara a quel po’ di enfasi
retorica del tempo, credo che sia tempo di riscoprire e valorizzare tutti
quei profili di pubblico interesse che la nostra professione senza alcun
dubbio ha, e che sono valorizzati a livello costituzionale dall’art. 24.
Fra questi, c’è anche, e deve continuare a esserci, la disponibilità
a prestare una parte del proprio lavoro gratuitamente a favore dei poveri.
Questo è, fra l’altro, uno degli elementi che giustifica il permanere
di una netta distinzione fra le professioni liberali - che si occupano
dei bisogni della gente connessi alla realizzazione della persona - e le
imprese di servizi, enti economici legati al profitto e al mercato.
A ben pensarci, solo in una ottica siffatta, nella quale la peculiarità
della professione viene individuata nell’interesse altruistico per il bene
pubblico, potrebbe giustificarsi la pretesa - levatasi da tanti ordini
- che la nuova legge professionale riconosca agli avvocati una esclusiva
sulla attività stragiudiziale di consulenza .
Non c’è incompatibilità tra il mantenimento dell’obbligo
onorifico della difesa dei poveri, e la regolamentazione del patrocinio
dei non abbienti: giacchè anzi proprio l’attività gratuita,
specie di consulenza, deve servire a indirizzare il non abbiente a servirsi
di tutti gli strumenti che la legge gli consente, e quindi anche della
opportunità di patrocinio a spese dello Stato.
Insomma, il gratuito patrocinio dei poveri deve restare un obbligo
etico della classe degli avvocati. Anche in un paese pragmatico come gli
USA, per tanti aspetti opposto al nostro, è oramai acquisito il
principio della necessità per gli avvocati di dedicare gratuitamente
una parte del proprio tempo lavorativo (si è suggerito il 10%) ad
attività non ricompensate ma a favore di casi di pubblico interesse
(attività detta “pro bono publico”o anche, semplicemente, “pro bono”)
(11). Si tratta di un concetto ampiamente dibattuto all’interno delle sezioni
dell’American Bar Association (ABA), alcune delle quali si sono fatte carico
di individuare concretamente i limiti dei pro bono dovuto dai loro associati
- in termini di ore di lavoro, o anche in termini di contribuzione sostitutiva
in denaro (12).
Certo, l’esperienza americana non è esportabile tout court,
posto che da noi non esiste nulla di simile all’ABA, associazione su base
volontaria ma potentissima ed in grado di condizionare i comportamenti
dei suoi 370.000 associati (13).
Esistono però da noi gli ordini: ai quali potrebbe utilmente
essere affidato il compito istituzionale di promuovere l’adempimento del
dovere onorifico di prendere le difese dei non abbienti, organizzandolo
attraverso associazioni o patronati o iniziative diverse.. In fin dei conti,
chi meglio degli avvocati potrebbe organizzare un sistema di assistenza
giuridica di pubblico interesse?
NOTE
1. Mauro Cappelletti, Dimensioni della giustizia nelle società
contemporanee, Bologna 1994, 71 e segg.
2. Access to justice a cura di Mauro Cappelletti, Milano-Alphen aan
der Rijn (Giuffrè - Sijthoff and Noordhoff, 1978, vol. I, pag. 22
e segg.).
3. Access to Justice cit., vol. I, pag. 28.
4. V. la voce “Avvocatura dei poveri” in Novissimo Digesto Italiano,
Torino 1964, Vol. I, tomo II.
5. Mauro Cappelletti, Processo e ideologie, Bologna 1969, pag. 547-8.
6. Don Lorenzo Milani si era occupato in più occasioni e concretamente
di organizzare la difesa dei poveri: cfr. Lettere di don Milani priore
di Barbiana, Milano 1970, pag. 174 segg.
7. Si ricordi almeno la Carta rivendicativa e programmatica approvata
dalla Fesapi al Convegno di Torino 10 settembre 1969.
8. I dati sono riportati su Italia Oggi del 25 febbraio 1999.
9. Mario Castellini, Troppi abusi nel gratuito patrocinio, su Italia
Oggi del 25 febbraio 1999.
10. Angiola Sbaiz, intervento al VI Congresso Nazionale Giuridico Forense
- Genova 1961, in Atti del Congresso, Milano 1963, pag. 97.
11. Access to justice, cit., vol. III, pag. 152 e segg.
12. George Kraw, Is pro bono an ethical duty? da Internet.
13. Palma Balsamo, Così si associano gli avvocati nel mondo,
in Notiziario forense del sindacato degli avvocati di Firenze e Toscana
aderente all’ANF, n. 77, giugno 1998.
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