EDITORIALE
di Palma Balsamo
E’ stato detto che lo scenario degli anni 90 è quello di una
società senza classi, ma tutt’altro che indifferenziata e monolitica.
Una società in cui il discrimine - ciò che stabilisce chi
è dentro e chi è fuori dal sistema delle opportunità
– è dato non tanto dal possesso degli strumenti di produzione e
finanziari, bensì dalla collocazione rispetto ai meccanismi di distribuzione
della ricchezza collettiva e, in modo complementare, dalla accumulazione
e dal controllo del capitale di conoscenze.
Nel mondo economico post industriale le forme prevalenti di produzione
non sono più orientate alle infrastrutture materiali della società
quanto piuttosto alle sue sovrastrutture immateriali, in termini di servizi
alla produzione e al consumo, mediante capitali caratterizzati da conoscenze,
know-how e abilità tecnologiche.
Muta al contempo il mondo del lavoro, con modalità e logiche
del tutto nuove, con una tipologia più articolata di forme, con
il passaggio dalla centralità del lavoro dipendente a quella del
lavoro indipendente. Il lavoro autonomo rappresenta uno degli ambiti produttivi
più significativi e competitivi del nostro sistema. L’autonomia
finisce col rappresentare il fulcro dello status lavorativo individuale,
anche quando questo coincide con forme di lavoro dipendente. Al contempo
assistiamo ad un prodigioso sviluppo del lavoro immateriale.
Se questi sono i dati del cambiamento della morfologia sociale, dei
valori e delle modalità del lavoro nella società, non stupisce
lo stato di crisi che attraversa il mondo della rappresentanza degli interessi,
la destrutturazione dei suoi attori tradizionali, lo scompaginamento dei
legami e delle forme associative.
La crisi del modello fordista, dopo aver imposto al Sindacato una strategia
di rappresentanza universalistica, fino a ricomprendere categorie socialmente
indeterminate (consumatori) o slegate dal processo produttivo (pensionati
e disoccupati), ha portato alla diffrazione della rappresentanza: di fronte
alla rottura del monopolio virtuale del sindacalismo tradizionale e all’analogo
processo di crisi nella parte confindustriale del sistema, emergono i primi
segnali, ancora contraddittori ma inequivocabili, di una serie di processi
di autoregolazione degli interessi sociali in modo autonomo rispetto al
sistema politico, ma anche rispetto all’assetto tradizionale delle relazioni
industriali.
Non è peregrino allora ipotizzare che le professioni rappresentino
la forma di controllo e regolazione delle opportunità occupazionali,
non solo diffusa o decentralizzata, ma anche propria a gruppi sempre più
importanti nella società. Gruppi sociali che mostrano valori professionali
ed etici, come la cooperazione contro l'eccessiva competizione sul mercato,
la soddisfazione e l'autonomia nello svolgimento del lavoro contro le forme
burocratizzate. Sulla base di questi valori una varietà di gruppi
occupazionali, che fanno riferimento ai processi sociali e alle evoluzioni
strutturali, individuano forme di autoregolazione, ma soprattutto diventano
gruppi professionali così definiti da strutture di appartenenza,
da pratiche relazionali, da segni di identità comune.
Ci siamo lamentati per anni della indifferenza riservata in Italia
al tema delle libere professioni, considerate in maniera incoerente con
l'importanza che hanno, dell'indifferenza dei governi che si sono succeduti
al lavoro intellettuale applicato, ai problemi della ricerca, come si produce
e come si gestisce la conoscenza in un paese avanzato, come devono essere
regolate le questioni inerenti. Ci siamo lamentati che non si sapesse cogliere
la relazione che vi è tra l'avanzamento professionale e lo sviluppo
di una società post-industriale che voglia essere competitiva.
Non solo il mondo politico è incapace di riconoscere la qualità
e quindi il valore dell’agire professionale, ma addirittura il crescere
di questa attività diventa la ragione per favorire il depotenziamento
o addirittura la cancellazione delle regole.
L’unionismo professionale diviene allora una strategia necessaria per
intervenire come voce politica nel dibattito non solo sui problemi generali
della società, ma sulle decisioni che comportano una rinormazione
moderna del lavoro intellettuale, anche con riferimento alle istituzioni
che consentono di renderlo proficuo ed efficace, in particolare al mondo
della formazione, della ricerca, della istruzione.
E’ questo che potrebbe consentire l’entrata in scena delle forze produttive
che si fondano sul lavoro professionale e che sono state sinora tenute
lontane dalle decisioni economiche e politiche importanti.
E’ un fenomeno di portata dirompente, che potrebbe modificare gli attuali
rapporti fra stato, utenti, imprese e mondo intellettuale e la cui pericolosità
viene avvertita allorché si tenta di rompere il fronte unitario
delle libere professioni, si pensi al recente tentativo posto in essere
con il DPEF in merito alla vigilanza sugli Ordini.
L’avvocatura ha per molto tempo rivendicato una propria specificità
rispetto al resto delle professioni intellettuali, in relazione al
suo essere soggetto della giusrisdizione. Specificità che certo
esiste, ma che non deve divenire un ostacolo al perseguimento di obiettivi
comuni a tutte le professioni e ad una vera e propria azione congiunta,
anche sotto il profilo della rappresentanza degli interessi.
Di colossale miopia è l’atteggiamento di chi pretende la parcellizzazione
della rappresentanza, addirittura per singole specializzazioni all’interno
di una singola professione.
E’ però indubbio che la nostra società pone nei confronti
dei servizi professionali una forte domanda di qualità e di efficienza,
imponendo di fatto agli operatori di articolare la propria offerta di prestazioni
e l’organizzazione stessa del proprio lavoro secondo logiche complesse,
anche se non del tutto riconducibili alle logiche di impresa.
A molti di noi può creare una istintiva diffidenza la facilità
con cui si cerca di trasferire meccanicamente i processi di funzionamento
del mercato in un mondo che non vive solo di mercato, ma anche di professionalità,
di deontologia, di valori individuali e collettivi.
Ma la diffidenza verso il disegno riformatore non deve automaticamente
condurci ad una posizione conservatrice di resistenza rispetto alle riforme.
Riforme da noi per decenni sollecitate in ordine a tutti i problemi
cardine del mondo professionale: i livelli formativi di base, i processi
di tirocinio e di inserimento sul lavoro, il rispetto dell’etica professionale,
la garanzia di una qualità sempre più alta delle prestazioni.
Il percorso comune appare proficuamente iniziato, così come
la riflessione all’interno delle espressioni tradizionali e nuove delle
professioni.
Percorso comune indispensabile per attivare un nuovo ed incisivo processo
di legittimazione sociale delle professioni, con la valorizzazione di quel
senso forte di appartenenza sia rispetto al segmento di terziario pregiato
che rappresentano, sia rispetto ai gruppi specifici di cui fanno parte,
che giustamente viene considerato un valore da salvaguardare nell’attuale
contesto di scollamento progressivo delle identità sociali dai relativi
status occupazionali.
Questi, in sintesi, i motivi della scelta di focalizzare questo numero
della Rassegna sul tema delle professioni intellettuali, e della
necessità che su questo tema si dibatta insieme a studiosi di sociologia
e di marketing, con un occhio alle statistiche e l’altro al confronto con
la realtà europea.
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