Non abbienti e processo penale
Un nuovo terreno di scontro fra classe forense e magistratura?
Di Mario Zappalà
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E’ ormai noto a tutti gli operatori del diritto come con la legge 217/90
“Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti”, il
legislatore italiano abbia inteso risolvere l’annoso problema del patrocinio
dei non abbienti nel processo penale, predisponendo un sistema che assicuri
la realizzazione del precetto sancito dal 3° comma dell’art. 24 della
Costituzione.
Prima del 1990, la difesa gratuita dei non abbienti nel processo penale
trovava la propria disciplina nelle norme del R.D. 30/12/1923, n. 3282,
dettato con riferimento all’ammissione al patrocinio nei giudizi civili,
commerciali o d’altra giurisdizione contenziosa, negli affari di volontaria
giurisdizione e, per l’appunto, nei giudizi penali.
L’utilizzo che veniva fatto di tale istituto nel processo penale era
pressoché nullo; lo stesso impianto legislativo, d’altro canto,
era costruito con riferimento ai procedimenti civili cui si riferiscono
“la stragrande maggioranza dei suoi quarantatré articoli” (1).
Medio tempore venne emanata la Costituzione e, con essa, riprese vigore
il tema della compiuta realizzazione del diritto di difesa dei non abbienti
nel processo penale, come testimoniato dai lavori che accompagnarono la
redazione della carta costituzionale (2).
Quando già era già stato redatto il testo dell’art. 19
del progetto di Costituzione (l’attuale art. 24, che, inizialmente, si
componeva dei soli primi due commi), infatti, alcuni costituenti proposero
di introdurre una disposizione aggiuntiva, tesa a garantire la difesa dei
non abbienti in ogni grado di giurisdizione, per il tramite di una avvocatura
dello Stato.
La proposta fu illustrata dal suo primo firmatario, l’on. La Rocca
il quale, nel perorare la necessità di assicurare la difesa dei
non abbienti, non fece alcun accenno al processo civile.
Tale proposta, discussa e bocciata da una parte dei costituenti, venne
riformulata con la previsione di un sistema di patrocinio dei non abbienti
che assicurasse la difesa degli stessi “in ogni grado di giurisdizione
e soprattutto in sede penale”.
Nonostante non sia rimasta traccia del riferimento specifico al processo
penale nel testo dell’art. 24 della Costituzione, pare evidente come fosse
particolarmente sentita la necessità di garantire la difesa dei
non abbienti in sede penale.
La formula prescelta: “ Sono assicurati ai non abbienti, con appositi
istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”
pose le fondamenta per lo sviluppo di un sistema che, in luogo di privilegiare
la costituzione di un’avvocatura statale dei poveri, consentisse al cittadino
di valersi del patrocinio di un libero professionista (3).
Solo a seguito dell’emanazione della L. 11/8/1973, n. 533, dettante
disposizioni in materia di controversie individuali di lavoro e di previdenza
ed assistenza obbligatorie, il legislatore ordinario tornò ad occuparsi
della materia del gratuito patrocinio, con scarso successo, a dire il vero,
tenuto conto dell’esiguo numero di procedimenti in cui si fa uso di tale
istituto.
Appena sette anni dopo, con una pronunzia che ebbe l’effetto di risvegliare
l’attenzione degli operatori giuridici sul tema del patrocinio a spese
dello Stato in materia penale, la Corte Europea dei diritti dell’uomo (sentenza
Artico del 13/5/1980), condannò lo Stato italiano per non aver garantito
all’imputato in un procedimento innanzi alla Corte di Cassazione la tutela
del diritto al gratuito patrocinio, sancito dall’art. 6, par. 3, lett.
c, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali.
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Nonostante l’eco provocata da tale autorevole pronunzia, si dovettero
attendere dieci anni prima dell’emanazione della 217/90 che disciplinò
in maniera organica e tendenzialmente esaustiva il patrocinio dei non abbienti
a spese dello Stato in materia penale.
La scelta del legislatore si è appuntata verso un sistema che
garantisce il patrocinio a spese dello Stato nel procedimento penale o
penale militare al non abbiente che rivesta la qualità di imputato,
persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile,
responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria
nei procedimenti penali e penali militari nonché in quelli civili,
relativamente all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno e
le restituzioni derivanti da reato (art. 1).
L’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato può
essere proposta dal non abbiente direttamente o per il tramite del proprio
difensore di fiducia (art. 2).
Volendo limitare il campo d’indagine al patrocinio dell’imputato, salta
immediatamente all’occhio come il legislatore abbia privilegiato un sistema
che, nel garantire ai richiedenti la possibilità di difendersi per
il tramite del proprio legale di fiducia, pare attuare a trecentosessanta
gradi il 3° comma dell’art. 24 Costituzione.
Le condizioni di reddito cui è subordinata l’ammissione al patrocinio
a spese dello Stato sono oggetto di disciplina nell’art. 3.
Il primo comma di tale norma prevede che :”Può essere ammesso
al patrocinio a spese dello Stato chi è titolare di un reddito imponibile
ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione,
non superiore a lire otto milioni nell’anno 1990 e dal 1991 a lire dieci
milioni”.
Nei successivi commi, si specifica come, ai fini della determinazione
di tale limite di reddito, occorra tener conto anche del reddito del coniuge
o dei familiari conviventi (nel qual caso i limiti del primo comma vengono
elevati di lire due milioni per ciascuno dei familiari conviventi) nonché
dei redditi che, per legge, sono esenti da IRPEF, sono soggetti a ritenuta
alla fonte o ad imposta sostitutiva
Infine, il 5° comma dispone che all’adeguamento della misura del
reddito del 1° comma possa procedersi con decreto del Ministero di
grazia e giustizia.
Dall’ammissione consegue l’annotazione a debito di ogni imposta e tassa
relativa agli atti del giudizio, il rilascio gratuito delle copie degli
atti processuali, l’esenzione dall’imposta di bollo per le autocertificazioni
di legge, l’anticipazione da parte dello Stato delle spese sostenute dai
difensori dai consulenti tecnici e da parte di tutti i soggetti che prestino
la propria opera nell’ambito del procedimento (consulenti tecnici di parte,
notai, pubblici ufficiali ecc.) nonché l’annotazione a debito degli
onorari e delle indennità anticipate dallo Stato (art. 4).
Nell’art. 5 vengono indicate le prescrizioni formali ed il contenuto
dell’istanza di ammissione, nell’art. 6 si chiariscono le modalità
ed i termini per l’ammissione, o la mancata ammissione, dei richiedenti
e nel successivo art. 10 si disciplinano i presupposti per la modifica
o la revoca dei decreti di ammissione, che, ai sensi di tale disposizione,
possono essere richieste soltanto ad istanza dell’Intendente di Finanza
(oggi Direzione Regionale delle entrate).
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L’applicazione pratica della 217/90 è cresciuta in maniera esponenziale
nel corso degli anni; dalle 99 ammissioni del 1990 s’è passati alle
26.410 nel 1997 (4) in conseguenza della sempre maggiore attenzione che
gli avvocati penalisti hanno rivolto alla legge.
Conseguentemente è cresciuta l’attenzione della stessa magistratura
penale, che, con l’andare del tempo, è stata chiamata a decidere
su un numero sempre maggiore di istanze, giusta il disposto dell’art. 6.
Le principali preoccupazioni che la magistratura penale si è
posta all’atto dell’applicazione della 217/90 si sono appuntate sulla necessità
di procedere ad una valutazione “effettiva” del reddito cui occorre riferirsi
ai fini dell’ammissione dei richiedenti e sul potere dell’autorità
giudicante di accertare autonomamente tale reddito ai fini della mancata
ammissione o della revoca.
Da un canto, si voleva accedere ad un’interpretazione molto lata del
concetto di reddito, al fine di ricomprendere nell’ambito di tale definizione
non soltanto i redditi evincibili dalla richiesta di ammissione e dai documenti
che la acompagnavano ma anche quelli evasi o, comunque, costituenti frutto
di reato.
Da un altro canto, era palese il tentativo dei decidenti di attribuirsi
il potere di procedere autonomamente ad una valutazione dei redditi dell’istante
ai fini dell’ammissione, della non ammissione o della revoca.
Con ordinanza del 28/6/1991, il g.i.p. presso il Tribunale di Bolzano
sollevò in via incidentale la questione della legittimità
costituzionale degli articoli 3 e 4 della 217/90 in relazione agli articoli
1 e 3 Costituzione.
Nella specie il giudice rimettente, fra le altre censure, osservò
come i criteri di valutazione del reddito previsti dalla legge finivano
per creare ingiusti privilegi in capo a chi, pur dichiarando un reddito
annuo non superiore ai dieci milioni, poteva comunque godere di disponibilità
maggiori, frutto di evasione fiscale o di illeciti di altra natura.
La Corte Costituzionale, chiamata a pronunziarsi sulla questione con
sentenza n. 144 del 17-30/3/1992, la dichiarò infondata osservando
come, ai fini dell’ammissione al patrocinio, rilevino anche i redditi non
rientranti nella base imponibile perché esenti o, di fatto, non
dichiarati nonché quegli altri redditi costituenti il frutto di
attività illecite.
Tutti i redditi suddetti, poi, potevano accertarsi con gli ordinari
mezzi di prova fra cui le presunzioni semplici dell’art. 2729 c.c..
Per altro verso, conscia delle conseguenze che potevano scaturire da
un utilizzo indiscriminato di tali principi da parte dei magistrati chiamati
a decidere sull’ammissione a patrocinio a spese dello Stato, la Corte Costituzionale
chiarì come il sistema della 217/90 fosse stato disegnato dal legislatore
“in modo tale da non lasciare spazio ad alcuna verifica o controllo preventivi
da parte del giudice competente ad accordare il beneficio”.
Venne sottolineato che: “Il giudice che riceve l’istanza non è
tenuto né può entrare nel merito dell’autocertificazione;
egli deve solo valutare che ricorrono le condizioni per l’ammissione al
beneficio alla stregua dell’autocertificazione; non può quindi valutarne
l’attendibilità, ma deve solo verificare che l’ammontare dei redditi
esposti sia, o meno, compreso nei limiti di legge e, all’esito di tale
controllo documentale (e quindi rapido), accordare, o negare, il beneficio
richiesto” e che: “Tale procedura snella è pienamente attuativa
del dettato costituzionale perché la garanzia del patrocinio dei
non abbienti deve necessariamente essere assicurata in tempi brevi e sarebbe
incompatibile con controlli ed indagini di una qualche durata sull’effettivo
reddito dell’istante (soprattutto se riveste la qualità di imputato)”.
La sentenza della Corte Costituzionale non lasciava adito a dubbi interpretativi;
la 217/90 era stata emanata allo scopo di garantire il diritto alla difesa
e le autorità giudicanti chiamate a decidere sull’ammissione non
avevano alcun potere di lunga indagine sulla veridicità delle dichiarazioni
attestate dall’imputato, tenuto anche conto del fatto che il sistema delineato
dal legislatore prevedeva in capo ad una diversa autorità, nella
specie l’Intendente di finanza (oggi Direzione Regionale delle entrate),
la possibilità di richiedere la revoca delle disposte ammissioni,
una volta accertata la insussistenza dei limiti di reddito.
Tali principi vennero riaffermati dalla Corte Costituzionale nella
successiva ordinanza n. 244 dell’1/6-3/7/1998.
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Parte della giurisprudenza penale successiva sembra aver tratto spunto
da tali pronunzie solo in relazione alla definizione di reddito enunciata
dalla Corte Costituzionale ed al principio dell’utilizzabilità delle
presunzioni semplici in materia di prova dei redditi occulti del richiedente.
Significativa, a tal riguardo, appare l’esperienza del Foro di Catania,
nell’ambito del quale s’è assistito ad un proliferare indiscriminato
di decreti di mancata ammissione e di ordinanze di revoca.
Può farsi riferimento, anzitutto, alla prassi seguita dalla
Seconda Sezione penale del Tribunale, la quale, sulla base della presunzione
di superamento della soglia di reddito dell’art. 3, suole respingere le
istanze di ammissione (peraltro, quando i procedimenti penali cui le stesse
si riferiscono sono già conclusi).
Un esempio per tutti: in data 28/7/1997, l’istante (che chiameremo
Tizio) chiese di essere ammesso ai benefici della L. 217/90 in relazione
al procedimento penale n. 863/97.
Benché il procedimento fosse stato definito con sentenza n.
912 depositata il 3/11/1997, il decreto con il quale veniva decisa la mancata
ammissione di Tizio è stato emesso in data 21/7/1999 con la solita
motivazione: “Considerato che, ai fini dell’ammissione al beneficio invocato,
rilevano anche i redditi non assoggettabili ad imposta, tra i quali devono
ritenersi compresi anche i redditi provenienti da attività illecite,
peraltro accertabili mediante il ricorso agli ordinari mezzi di prova tra
cui le presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c.; ritenuto che i precedenti
giudiziari a carico dell’imputato….. in una al quadro probatorio acclarato
con la sentenza di condanna di primo grado, rappresentano elementi idonei
a far presumere che il richiedente abbia disponibilità reddituali
(ancorchè illecite) superiori rispetto a quelle ufficialmente accertate
o accertabili, a quelle dichiarate nell’istanza di ammissione al beneficio
e comunque superiori a quelle costituenti limite per l’ammissione al patrocinio
a spese dello Stato (art. 3 L. 217/90) P.Q.M. respinge l’istanza in epigrafe”.
Per la cronaca, dal certificato del casellario giudiziale del richiedente
non risultava alcuna condanna e lo stesso, peraltro, era stato assolto
“perché il fatto non sussiste” nel procedimento penale per il quale
era stata richiesta l’ammissione.
Orbene, v’è da chiedersi se provvedimenti di tal fatta non manifestino
il malessere di parte della magistratura nei confronti di un istituto del
quale si vuole scoraggiare, in tutti i modi, l’applicazione pratica.
Sempre con riferimento all’esperienza del Foro di Catania il dubbio
appare più che fondato, se solo si tiene conto dello smisurato aumento
di provvedimenti che, tanto nella forma quanto nella sostanza, paiono oltremodo
lesivi della L. 217/90 e dei principi costituzionali che la sottendono.
Negli ultimi tempi s’è assistito a revoche disposte d’ufficio
con ordinanza dalla Corte di Assise su sollecitazione dei Pubblici Ministeri
per la mancanza dei presupposti di reddito di cui all’art. 3 (quando, ai
sensi del 2° comma dell’art. 10, in fattispecie di questo tipo la revoca
può disporsi solo in presenza di una richiesta dell’intendente di
finanza), a decreti di mancata ammissione emessi dalla Corte d’Appello
con la seguente motivazione: “Perché manca la dichiarazione attestante
la mancata presentazione non solo della dichiarazione dei redditi ma non
anche la mancata presentazione dei modelli 101 o 201”, a provvedimenti
del Tribunale in cui si “Sospende la decisione, in ordine all’istanza in
epigrafe, fino al deposito della motivazione della sentenza di primo grado”
in assoluto dispregio del disposto del citato art. 6 e del dictum della
citata sentenza 144 della Corte Costituzionale.
Come opporsi a questa “prassi”?
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La possibilità di ottenere la riforma dei provvedimenti di mancata
ammissione e di revoca è legata alla proposizione dei gravami disciplinati
dagli artt. 6 e 10.
Ai sensi del 4° comma dell’art. 6, entro venti giorni da quello
in cui ha ricevuto l’avviso di deposito del decreto di mancata ammissione
ovvero la copia del medesimo, l’interessato può proporre opposizione
innanzi al Tribunale o alla Corte d’Appello ai quali appartiene il giudice
che ha rigettato l’istanza. Avverso l’ordinanza che decide sull’opposizione
può proporsi ricorso per Cassazione per violazione di legge.
In presenza di un’ordinanza di revoca, invece, si può ricorrere
soltanto in Cassazione, ai sensi dell’art. 10 comma 2°.
A chi spetta decidere su tali gravami, alle sezioni civili o a quelle
penali di Tribunali, Corti di Appello e Corte di Cassazione?
Le sezioni penali della Cassazione, chiamate a decidere sui ricorsi
proposti ex art. 6, comma 4°, hanno implicitamente ritenuto la propria
competenza (si confrontino Cass. Penale, Sez. I, 31/5/1995, n. 3316 e 2/3/1998,
n. 1254 nonché Sez. IV, 14/4/1995, n. 1338).
Viceversa, la I sezione civile della Cassazione, con sentenza n. 6302
del 25/6/1998, ha ritenuto la materia in esame di competenza delle sezioni
civili: “ …le controversie aventi ad oggetto l’ammissione a patrocinio
a spese dello Stato, quali prefigurate dagli artt. 6 commi 4 e 5 e 10 comma
2 della legge 217 del 1990, appartengono alla materia civile per la decisiva
ragione che tale oggetto è costituito, immediatamente, dall’accertamento
circa la sussistenza o non …. delle condizioni di reddito imponibile …
oggetto assimilabile a quello tipico delle controversie tributarie …..e,
mediatamente, dai diritti alla tutela giurisdizionale ed alla difesa, costituzionalmente
assicurati anche ai non abbienti (art. 24 comma 3 Cost.), che sono diritti
tipicamente “civili” …”.
La soluzione accolta dalla I Sez. civile della Corte di Cassazione
sembra condivisibile in quanto maggiormente aderente al dettato normativo;
la stessa, tuttavia, determina il sorgere di ulteriori problemi che, indirettamente,
incidono sull’operatività della 217/90 e sul diritto costituzionale
garantito dal 3° comma dell’art. 24.
E’ evidente, infatti, come l’instaurazione di un procedimento in sede
civile comporti costi non indifferenti determinati dall’apposizione delle
marche giudiziarie e dei diritti di cancelleria sugli originali e le copie
nonché dalle spese di notifica.
A chi spetta sopportare i costi dei relativi giudizi?
La risposta è ovvia: al non abbiente.
In conclusione può affermarsi che per effetto della strenua
opposizione che parte della magistratura penale riserva all’applicazione
di una legge dello Stato, si è arrivati all’assurda situazione per
cui il non abbiente, al fine di godere del patrocinio a spese dello Stato
in sede penale, deve far valere i suoi diritti in sede civile, affrontando
i costi del relativo giudizio.
Ma se di non abbiente si tratta è evidente come lo stesso non
possa far valere alcunché in sede civile.
Certo è che provvedimenti come quelli sopra descritti (soprattutto
se emessi dopo la conclusione dei procedimenti cui si riferiscono) non
possono non essere oggetto di impugnazione, in quanto ripugnano la coscienza
giuridica della classe forense.
Gli avvocati che non sono disposti a cedere all’arbitrio sono già
scesi in campo anticipando i costi dei giudizi di impugnazione proposti
in sede civile.
Come è già accaduto, i magistrati delle sezioni civili,
pur accogliendo i ricorsi avverso i provvedimenti emessi dai loro colleghi
delle sezioni penali, dichiareranno l’irripetibilità delle spese
sostenute dai ricorrenti.
Tale situazione, probabilmente, perdurerà finché l’aumento
del carico dei ruoli delle sezioni civili determinato dalle decine di ricorsi
proposti ex art. 6, o un’ulteriore condanna da parte della Corte Europea
dei diritti dell’uomo, non ricorderanno a qualcuno che, nell’ambito del
nostro ordinamento, esiste una legge che tutela il diritto costituzionalmente
garantito dei non abbienti al patrocinio a spese dello Stato ed un principio
secondo cui le spese del giudizio non possono mai porsi a carico della
parte che risulti vittoriosa.
Note
1) Franco Cipriani, Il patrocinio dei non abbienti in Italia, Foro
Italiano 1994, V, pag. 83 e segg.
2) La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea
costituente, Roma, 1970, V, pag. 4131 e segg.
3) Sui diversi modelli di patrocinio dei non abbienti si confronti
Giuliano Berti Arnoaldi Veli, in questa rassegna, n. 1 del 1999, pagg.
38 e segg.
4) Dati riportati in: “Troppi abusi nel gratuito patrocinio” su Italia
Oggi del 25/2/1999, pag. 46.
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